di Filippo Davoli
Sono due giovani marchigiani, Davide Tartaglia e Enrico Marcucci. I nostri lettori avranno imparato ad apprezzarne gli interventi critici su queste colonne, ma l’ascolano Tartaglia e il montegiorgese Marcucci nascono, in realtà, con una chiara intenzione poetica. Che hanno tradotto, in questi mesi, nella rispettiva opera prima, pubblicata per i tipi di Italic (Tartaglia) e L’Arcolaio (Marcucci).
La poesia la scrivono in troppi, la leggono in pochi e non la compra nessuno. E può anche starci, perché tra manierismi di ritorno e sperimentalismi fuori tempo massimo, più una frotta sterminata di prove imbarazzanti di dilettanti allo sbaraglio, la voglia di comprare libri di poesia scemerebbe in chiunque. Perché qualche volta, in questo quadro sconsolante, vede la luce qualcosa che riconcilia: le Figure del congedo di Davide Tartaglia sono una di queste piccole perle. Che sta a significare molte cose: la prima e più significativa è che, al di là di categorie allotrie (le generazioni, le militanze, le tematiche, etc.), può ancora esistere – ed esiste – una “poesia onesta”; e che questa “poesia onesta” è figlia di una grazia di stato che, con buona pace delle scuole di scrittura, soffia il suo vento dove vuole (Tartaglia è ingegnere e non ne ha mai frequentata una); infine, che questa grazia, nel concedersi, ancora evoca (e pretende) una sempre più profonda confidenza con la biblioteca e i suoi ospiti, nel fiume ininterrotto del grande stile. Credo siano elementi di ottimo auspicio per la nostra tradizione futura.
Le Fughe e ritorni di Enrico Marcucci sono, invece, a loro modo un unicuum. Nella vasta teoria degli educatissimi artigianati della parola poetica – ridotta ad eccellenti insignificanze, minimalismi di mestiere, precise quanto anonime sembianze – a imbattersi nei versi di Marcucci si sussulta: la sua, infatti, è una parola che non si lascia ingabbiare né anastetizzare facilmente. Enrico, che alla sua giovane età è già tuttavia esperito nell’esistenza – e che ha scoperto la biblioteca come un’amante speculare in cui rintracciare il senso della propria orma – quando va ad usare la lingua lo fa in un modo tutto suo. Apparentemente normale, lineare: ma sempre, qua e là, appare una preposizione scomposta, un anacoluto solo in teoria non necessario. La sua, cioè, è una lingua a sé. Una lingua colma e scheggiata, sanguinante. Come a dire che non c’è poesia che vinca sopra la vita: la ricognizione opportuna, lo scontro talvolta anche feroce – ma sempre innamorato e innamorante – con la propria nudità. Ma con una sua funzione indicante, illuminante, senza per questo voler essere destinativa. E’ del resto il nostro indimenticato Remo Pagnanelli ad asserire nei suoi Scritti sull’arte che “tanto nella pittura quanto nella scrittura la visionarietà, come deviazione dalla norma, costituisce fonte di feconda poesia”.
Ecco: è questa assoluta assenza di strategia versificatoria, questa difficile semplicità (che non ha niente di facile o di manierista e tanto meno di mestierante) a rendere ai nostri occhi preziose queste due prove, così diverse tra loro e, contemporaneamente, così sincere.
Verranno presentate entrambe (e lette da Rodolfo Craia) presso il Cortile Municipale di Macerata giovedì prossimo, 10 luglio, alle ore 21:30. In caso di pioggia o di maltempo, la presentazione avverrà sotto la Galleria Scipione in Via Gramsci. Saranno presenti gli autori.
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