di Alessandro Moscè
Rosalba de Filippis è nata a Macchiagodena, un piccolo paese del Molise dominato dal massiccio del matese, con case in pietra strette intorno al castello, con la fortificazione che preserva un fascino immemore sullo spuntone di roccia calcarea precipitato a strapiombo. Non è affatto insignificante la toponomastica (o mitografia) del luogo originario, per questa poetessa chevive a Monteloro e insegna a Firenze, che ha pubblicato le raccolte poetiche: Sotto nevi di carta (Campanotto 2007), Il filo forte del liuto (Campanotto 2008), La luce sugli spigoli. Canti di Monteloro (Stampa Alternativa 2011) e Danielle. L’ultima foglia è sempre la più alta (Campanotto 2013). Quest’ultima fatica è un poema incentrato sulla figura di una ragazza, forse mai esistita, che incarna la poesia che “guarda in alto” e sfida la morte, nonché la femminilità che si rapporta con le vicende terrene e con la precarietà esistenziale in luoghi arroccati, ma dai declivi dolci come a Macchiagodena, dove volano le farfalle e dove la vegetazione conserva un odore e un sapore medievali. In Danielle una sacra cosmogonia si riversa nel dialogo interattivo tra la protagonista metastorica e lo stesso io poetico, il quale dischiude una percezione assoluta, indefettibile, come sempre succede quando le coordinate spazio-temporali sono il fulcro letterario di un’opera, tanto più in versi e se cantata sulla linea di confine della diade amore/dolore. Nello specifico Danielle Sarréra è una fuggiasca, un’adolescente morta suicida a 17 anni e “ritrovata” nei quaderni scritti dal francese Frédérick Tristan (esponente di spicco della cosiddetta nouvelle fiction).
Viene acceso questo calvario mitologico e Rosalba de Filippis resuscita una ninfa spaesata, una fanciulla che assume su di sé i mali del mondo attraversando vorticosamente più epoche storiche. Un’icona, dunque, per un grido rivolto al “mondo sordo”. La poesia è una dotazione di mistero che prolunga la sua eco in una condizione primordiale. E dalla fiamma del ricordo, sempre ardente, come fosse una grande lampada che sorveglia dall’alto l’agire comune, si muovono tante Danielle: immagine tradotta in commento, evocazione, ambientazione, magia, confessione, àncorata al passato sotto le mentite spoglie di personaggi illustri. Il tempo viene annullato e si instaura idealmente un ponte tra “un oggi e tanti ieri”. Il presente funge da vortice nel quale un redivivo purgatorio poetico è trasformato dalle donne con “gli occhi gialli di tigre” che osservano nel buio silenzioso dei boschi, tra i rami scheletrici degli alberi, in crepuscoli cinerei ecc. “Danielle, / in questo tempo lontano / in cui cerco il tuo passo / calcolo anch’io / i miei abiti di lana / io donna / con le cime dei capelli / troppo bianche / mi arrampico sul ramo / accanto al vetro / apprendo adesso / cosa mi hai rubato: / un fiore profumato / un laccio / un meno di speranza”. La poesia ha un andamento teso, sussultorio.
E’ evidente che il sogno visionario prende quota parallelamente al tentativo di cogliere un bene supremo, un elemento immateriale che conduca alla salvezza definitiva. Ancora: “Ti ho trovata questa notte / con le stelle / cadevi tra gli sterpi / già sfinita dopo il parto / tra le ombre del mio orto”. Danielle è una crisalide che vola a stento, una fata ammaliatrice che rischia di inciampare sul suo passo. Rosalba de Filippis imprime una solennità epica al suo incedere, una sensualità panica contrassegnata da un’incompiuta verità. Danielle è autentica ma perduta (le classiche antinomie compatibili), sa rinascere in una durata materna, ancestrale, in un afflato umano dai sentimenti trasfusi di volta in volta. Semina le sue sagge parole, entra ed esce da una dimora impervia, pronta per un’irripetibile esperienza. “… sono domestica / mi faccio tutto un male di consuetudini / affacciate alle finestre / di pulviscolo mischiato al fumo denso”. La protagonista è capace di rarefarsi fino a scomparire, di assumere le sembianze di un folletto, di creatura alata, di tornare improvvisamente donna “con le mani nel grembiule e nella strada”. Danielle appare infine un fantasma sensibile che “sormonta” il tempo fino a misconoscerlo nei flash, nelle sovrapposizioni, nelle fughe. Il suo atto di memoria coincide con l’immaginazione fervida che Rosalba de Filippis colloca nella natura e nella civiltà, in un reticolato di materia e di vento tra versi fieri, analogici, allusivi. La foglia più alta si coglie in una dimensione metafisica, nella bellezza e nello strazio. E tutto, come un’energia, si rimette in moto in quella landa di confine tra terra e cielo che potrebbe trovare il suo epicentro nella sperduta Macchiagodena. “Danielle, è fatale il nostro scomparire / e sono mie le impronte sul greto / mio il corpetto con la filigrana / mia la sottana appesa sopra il ramo”. La proiezione mentale di Rosalba de Filippis ci ha consegnato un incanto per lo più spirituale, psichico e visivo. “La coscienza è quella voce interiore che ci avverte della possibilità che qualcuno ci stia guardando”, sosteneva Henry Louis Mencken. Danielle, in effetti, spia un altrove nascosto nell’amore, dominio che fa battere il cuore in ogni pronuncia personale: “Sono la Danielle che sbatte / la sua porta / ferma gli amanti / con le cravatte bianche / divarica le gambe / dentro un cerchio”.
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