Emilio Villa, “L’amico socialista”

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Emilio Villa

Emilio Villa

 

 

Abita qui ancora in subaffitto quel tale che una sera d’agosto

che il cielo era basso lì lì per cadere spiovendo

nei bicchieri succhiati, nei fossi, e che diceva: “la civiltà

è un paradosso, e basta”?

 

amarezza e confusione producendo

indicibili sul tavolo dei registri battesimali,

aveva avariato vagamente i suoi cognomi e i connotati;

 

e pochi conoscevano a fondo la carnale profondità

delle sue parole colorate dall’ignoranza,

e io l’ho in mente ancora dopo tanto moto di anni, e fino

 

ricordo il dondolo della pallina di vetro nel collo

della gazosa, un verde smerigliato, chiaro:

era un uomo che aveva sete di gazose e squinzani

 

la sera del sabato di agosto che il cielo mollo mollo

era basso e faceva un soffoco tremendo, un grande vomito,

anche a tirar su le maniche di albene fino al gomito:

 

quel tale che andava misurando la piazza

nel vortice tenero viola delle case lì intorno

con la corda d’attaccare il bucato la moglie, e contare

così su per giù i salari, e le sere cadute nel volo delle sere…

 

e io per me mi tengo in mente la mimosa estasiata nel giardino

della canonica, che mugolava vedendosi nell’orlo del fossato

tremare e la vasca solitaria abitata dal freschetto,

i fiori blu accesi del salnitro in fondo alla cisterna; il rubinetto:

 

ora, in segreto, alla rinfusa, il vino degli uomini fermenta

per una sera estrema in cui le trombe alte in mezzo al rosso

parapiglia sveglieranno gli ignoti e il rimorso delle opere inutili;

 

così che quando uno adesso si addormenta nel mugghio

invernale che odora, con in bocca noccioli di prugne o liquerizia

o cicca americana, senza aver finito di guardare la sevizia

 

degli affitti, una forbice arrotata

gli branca la rotella del ginocchio, e tric,

un taglio, o questa cartilagine qui all’orecchio.

 

Ma lui non ha potuto sentir bene quella volta che venivo

a bussare alla sua porta perché il tuono di tutta l’Europa

confondeva e cieli e piazze e giardinaggi senza pietà,

 

mi bagnava le nocche, e il vento urlando

saltava qua e là come una bestiola disperata,

e io dovevo scappare alla svelta per paura

 

di restar lì come quello dei fichi a prendere ancora la pioggia

e tuono, e altro, dentro le giunture o i buchi

o nei poveri stracci del polmone… E di là dalla porta

 

venivano bocconi di una musica imprecisa, danneggiatissima,

dietro le spalle le montagne stavano per spegnersi

e sparire, e dovevo andar via, e tu dirai:

“beh, ma che c’entra tutto questo?”; eh, se c’entra!

 

Perché insieme io e lui noi due andare potremmo a trar respiro

dalla grigia profondità delle nazioni e delle terre

altrui, e ormai di tutti, ad annusare il fiato

 

nella filitura che connette notte e giorno; del filo d’erba

che vuoi crescere sollevando il pietrame che lo pigia;

o qualche cosa di più grande ancora che vallate

e prati e piazze e nazioni e cateratte: il temporale!

 

 

E.Villa, da Opere poetiche I, Coliseum, 1989



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