Abita qui ancora in subaffitto quel tale che una sera d’agosto
che il cielo era basso lì lì per cadere spiovendo
nei bicchieri succhiati, nei fossi, e che diceva: “la civiltà
è un paradosso, e basta”?
amarezza e confusione producendo
indicibili sul tavolo dei registri battesimali,
aveva avariato vagamente i suoi cognomi e i connotati;
e pochi conoscevano a fondo la carnale profondità
delle sue parole colorate dall’ignoranza,
e io l’ho in mente ancora dopo tanto moto di anni, e fino
ricordo il dondolo della pallina di vetro nel collo
della gazosa, un verde smerigliato, chiaro:
era un uomo che aveva sete di gazose e squinzani
la sera del sabato di agosto che il cielo mollo mollo
era basso e faceva un soffoco tremendo, un grande vomito,
anche a tirar su le maniche di albene fino al gomito:
quel tale che andava misurando la piazza
nel vortice tenero viola delle case lì intorno
con la corda d’attaccare il bucato la moglie, e contare
così su per giù i salari, e le sere cadute nel volo delle sere…
e io per me mi tengo in mente la mimosa estasiata nel giardino
della canonica, che mugolava vedendosi nell’orlo del fossato
tremare e la vasca solitaria abitata dal freschetto,
i fiori blu accesi del salnitro in fondo alla cisterna; il rubinetto:
ora, in segreto, alla rinfusa, il vino degli uomini fermenta
per una sera estrema in cui le trombe alte in mezzo al rosso
parapiglia sveglieranno gli ignoti e il rimorso delle opere inutili;
così che quando uno adesso si addormenta nel mugghio
invernale che odora, con in bocca noccioli di prugne o liquerizia
o cicca americana, senza aver finito di guardare la sevizia
degli affitti, una forbice arrotata
gli branca la rotella del ginocchio, e tric,
un taglio, o questa cartilagine qui all’orecchio.
Ma lui non ha potuto sentir bene quella volta che venivo
a bussare alla sua porta perché il tuono di tutta l’Europa
confondeva e cieli e piazze e giardinaggi senza pietà,
mi bagnava le nocche, e il vento urlando
saltava qua e là come una bestiola disperata,
e io dovevo scappare alla svelta per paura
di restar lì come quello dei fichi a prendere ancora la pioggia
e tuono, e altro, dentro le giunture o i buchi
o nei poveri stracci del polmone… E di là dalla porta
venivano bocconi di una musica imprecisa, danneggiatissima,
dietro le spalle le montagne stavano per spegnersi
e sparire, e dovevo andar via, e tu dirai:
“beh, ma che c’entra tutto questo?”; eh, se c’entra!
Perché insieme io e lui noi due andare potremmo a trar respiro
dalla grigia profondità delle nazioni e delle terre
altrui, e ormai di tutti, ad annusare il fiato
nella filitura che connette notte e giorno; del filo d’erba
che vuoi crescere sollevando il pietrame che lo pigia;
o qualche cosa di più grande ancora che vallate
e prati e piazze e nazioni e cateratte: il temporale!
E.Villa, da Opere poetiche I, Coliseum, 1989
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