Lo “Spazio Inediti” di questa settimana ospita uno splendido racconto di Luigi Arena, funzionario scolastico sessantaquattrenne; la storia si ispira ad un fatto realmente accaduto.
Luigi Arena, Prima che secchi lo sputo
Non sai che cosa volesse dire essere donna, da queste parti, in questo Sud, negli anni appena dopo la guerra, quando la pace si costruiva al nord e noi qui, a pulire le ferite infette di sempre e da sempre .
Dalla famiglia alla scuola, alle amiche, poche, che riuscivi faticosamente a conquistare, era un calvario che umiliava, mille torture che la mente allenata, imparava a schivare, talvolta ad ignorare, e certi giorni, a dispetto del sole che bruciava le strade, sentirsi se stessa era una fatica immane, un cozzare contro cento muri, contro un passato che non passava mai, legato a usanze, paganesimi mentali che non avresti scassato in nessun modo. Guardo oggi, dalla terrazza di casa, dei teneri padri accompagnare figlie adolescenti a scuola, lo zainetto della pargola in spalla, premurosi, forse anche troppo e non posso fare a meno di pensare a mio padre.
Era forte, terribile come un’Apocalisse minacciata e che non arrivava mai, ma era questo il filo con il quale teneva legati noi di casa: era la mezza MS spenta agli angoli della bocca, lo sputo per terra, la bestemmia oscena quando la vita non andava per il giusto verso, il vino nero ed aspro che lo rendeva crudo come notte, la cinghia dei pantaloni ispessita dal sudore di una vita di fatica, era il padrone assoluto e noi gli spettatori dei suoi furori, delle rare carezze, ostaggi nati su di un letto privo di amore. Camminavo per le strade del paese e tutti sapevano a chi appartenevo, come una merce, fagotto di ossa e di carne con negli occhi stampati dei sogni assurdi.
Quella del mio genitore era una gelosia di casta, trasmessagli dal padre e dal padre del padre, in una catena così lunga la cui memoria si perdeva tra i vicoli, ai margini di una civiltà che faceva fatica a farsi largo tra quelle mura e poi come avrebbe potuto, se il resto del paese osservava, scrutava, giudicava, assolveva o condannava come usava allora e come usa ancora oggi, a dispetto del tempo passato? Mia madre? Ma che domande fai ? Era la vittima numero uno, l’agnello sacrificale sull’altare di una altrui mascolinità esibita ed ereditata dalla nascita: si spaccava la schiena in negozio, contrattava con i fornitori, sfornava figli, teneva in ordine la casa, sopportava tutto e tutti, mentre il marito, valicava le montagne a bordo di uno sgangherato camion trasportando tutto il trasportabile, dalle granaglie alla biada, dalle pietre alla sabbia di un mare così lontano di cui non si sentiva neanche il profumo.Lui tornava a sera tardi, avvolto in una nuvola di polvere e puzzo d’olio, coperto di sudore da capo a piedi, rientrava nell’unico regno in cui poteva essere re ed esercitava il potere con mano inflessibile, felice di essere quello che era, anche se gli anni, la polvere e la tanta strada gli stavano mangiando i polmoni e larghe fette di cuore.
Una volta, avrò avuto otto o nove anni, di ritorno da uno di quei massacranti viaggi, mi chiamò, sputò in terra e disse con quell’aria da padrone del cielo, della terra e di tutta la mia carne: “Vammi a comprare le sigarette, non fermarti per nessuna ragione per strada e torna in tempo, prima che secchi questo sputo”.
Avevo le ali ai piedi quella sera, non vedevo altro che l’insegna del tabaccaio, la fronte bruciava, lo sputo poteva seccare prima che facessi ritorno ai suoi piedi, cucciola arrendevole….
Vi riuscii, il cuore sotto la camicetta pompava un pum pum da grancassa, come quella che suonava quando c’era la festa della Madonna bambina e noi si camminava scalzi per chiedere perdono di peccati non ancora commessi, mentre i veri peccatori fumavano impettiti davanti al bar, il vestito della festa e l’unica camicia bianca indossata in onore della Vergine, a ostentare una purezza cui essi per primi non credevano, ma erano quelli i tempi, quelle le devozioni, quelli gli uomini e niente poteva farli cambiare.
Tornai a casa stringendo tra le mani il pacchetto di sigarette: lo sputo non era ancora seccato, per fortuna il figlio degli dei che rispondeva al nome di mio padre non era adirato e la cena trascorse in una allegria senza patemi, mentre il vino gli scorreva in gola come un fiume che aveva finalmente trovato il suo letto di piacere.
Qualche volta veniva a prendermi a scuola ed erano guai se mi scopriva a parlare con qualcuno: calci in culo e parolacce che sentivano tutti lungo la strada che portava a casa; mia madre ci accoglieva l’uno con un bacio su una guancia, come un dovere e l’altra con un abbraccio che pareva il benvenuto in un mondo di dolore ed afasia di sentimenti.
L’adolescenza scivolò come fiume in piena, non riuscivo ad incanalare i pensieri, il corpo viveva di vita propria e nessuno mi raccontava di me, di quello che stava accadendo, della crisalide che sbocciava in farfalla: erano tutti dediti a soffocare ogni spasimo, a dirottare ogni pensiero, a stracciare ogni segno di femminilità , una storia che nessuno deve o dovrà leggere; ero diventata sacra, d’una sacralità assurda e intangibile, niente affatto femmina, ma prevedibile preda di uomini, cacciata sotto un soffocante velo di veti e paure ancestrali, ridotta a bambola ruvida per un futuro di solitudine, ancora una volta di proprietà sua, della famiglia, del gruppo, del clan,del sangue che ci univa.
Arrivai a vent’anni come sopra un tappeto magico: non m’accorsi dei giorni, delle ore, grattavo dall’anima tutti i no possibili e li rovesciavo in si agli occhi di mio padre ed a quelli di mia madre ormai fattasi complice e anche aguzzina, invischiata nella tela di ragno tessuta da secoli alle sue spalle sempre più curve, dolorose e doloranti. D’un tratto mi resi conto che era decisamente troppo, sentivo dentro nascere una rabbia sorda, un odio che ancora oggi avverto, qualcosa che impasta la bocca, rende sorda e cieca tutta la persona, come se si mettesse in moto un camion carico di dolore e di falsa rassegnazione ed allora mi immaginavo fughe e vendette, un futuro nel quale un principe magari neanche biondo, forse pure senza cavallo, venisse a prendermi per portarmi via verso non so dove, verso una qualunque libertà, lontano da quella schiavitù fatta di maleparole e disistima.
Peppe? Peppe rappresentò l’uomo giusto nel momento giusto, l’innamorato perduto che passava ore di fronte alle finestre della nostra casa a struggersi nell’attesa che mi affacciassi o uscissi per compere.
Alto, un acciugone di un metro e ottanta, posto in banca, era il perfetto grimaldello da usare per uscire dalla prigione dentro la quale ero stata chiusa ed in cui mi tenevano compagnia centinaia di libri e riviste di moda: lo accettai anche se era brutto e non lo amavo. Lo sposai e mi diedi a lui come fossi una cosa, svogliata, carica di risentimento, quasi pagassi un dazio alla libertà e questo lo ferì, ma era troppa la rabbia accumulata per incrociare il dolore altrui: ero volata via, partita verso il chissàche, verso il chissàdove, ero libera dal passato, eccitata dai giorni a venire, eccessiva nella bulimica foia di vita…almeno era questo ciò che credevo.
Peppe mi concedeva tutta la libertà che volevo, mi adorava, mi seguiva come un animale paziente e anche quando incontrai Claudio non fece storie, comprese, sapeva che solo in quel modo non mi avrebbe persa: era un amore malato il suo, qualcosa che si era tramutata col tempo in una devozione, una adorazione attossicata che ancora non riesco a comprendere dopo tanti e tanti anni. Claudio era il quadro della libertà, se avessi saputo dipingere: lo incontrai in un piccolo negozio di alimentari, mezzo brillo, sfatto di sentimenti, orgoglioso come sanno esserlo solo i falliti e timido come un ragazzino, una contraddizione dentro una contraddizione e mi dissi che era ciò che avevo sempre desiderato.
Quante notti abbiamo trascorso a bere e fantasticare, sul letto come bambini che saggiano le ore a far l’amore, a raccontare e a raccontarci e quante e quante volte lo ho raccattato per strada, ubriaco fradicio portandolo a casa per curare le piccole ferite che s’era procurato ora facendo a botte con qualcuno, ora semplicemente perché barcollava e non si teneva in piedi.
Quando nacque Massimo, c’era Peppe a farmi coraggio, sapeva bene che il figlio non era suo, ma c’era, mentre Claudio era partito per andare a cercare un qualunque lavoro al nord, dalle parti di Piacenza. Vide il figlio cinque giorni dopo la nascita e avvertì mio padre che non lo fece neanche entrare in casa e lo spedì lungo per terra con un pugno,mentre mia madre con le lacrime agli occhi per la vergogna cercava di trattenerlo. Il giorno del battesimo di Massimo, dal fondo della navata della chiesa riconobbi la tosse di mio padre: era venuto, si teneva in disparte, forse parlava con quel Cristo di legno che dominava l’altare e chissà cosa si saranno detti l’Uomo in croce e il vecchio rugginoso, a quale dei rispettivi sentimenti avranno fatto appello se alla fine della cerimonia mi voltai e non lo vidi; era scappato, s’era infilato in uno dei vicoli con il fagotto di rancori e di ricordi, oppure era commosso, irato, freddo? Trascorsi giorni come su di una giostra: la cura di un figlio mi assorbiva, mentre intorno a me Peppe e Claudio si inventavano una vita per potermi stare accanto, ognuno a suo modo e nelle piazze si inneggiava alla libertà per le donne, al femminismo trionfante, al grido di “io sono mia”.
Andai a vivere con Claudio in una palazzina immersa nel verde, ai confini del paese, lontana da tutto e da tutti, mentre il bambino cresceva e poco a poco acquistavo una forza che mi avrebbe permesso di li a poco di andarmene a vivere per i fatti miei, madre non più ragazza, mentre le immagini degli uomini che mi erano stati accanto finivano con lo sbiadirsi un giorno dopo l’altro.Infatti lasciai Claudio poco dopo a se stesso, ai suoi fantasmi, a quelle rivalse contro la vita cui non seppe mai dare veramente spazio: lo abbandonai, incapace come ero diventata di amare altri che non fosse mio figlio, l’egoismo si stava espandendo a macchia d’olio sul cuore che era diventato stoppaccioso, crudo, inutile a dir poco e non ne avevo ancora terrore. Un pomeriggio vidi comparirmi davanti mia madre, mentre rincasavo: aveva gli occhi rossi, la schiena sempre più curva, mi abbracciò in silenzio, la sentivo piangere e biascicare qualcosa che al momento non compresi.
Si sciolse dall’abbraccio e raccontò che mio padre era stato male, molto male, tanto che avevano dovuto riportarlo a casa dall’ospedale su consiglio dei medici: non chiese, non pregò, mi lasciò una carezza che arrossò le guance, infine la vidi scomparire pian piano come una foto sfuocata, quindi più nulla e dentro quel nulla mi allontanai e piansi.
La domenica dopo quell’incontro tornai alla vecchia casa, salii le scale che portavano alla camera da letto e lo vidi: finalmente indifeso, privo di boria, un uomo precocemente invecchiato,le mani callose ed arrese abbandonate sul lenzuolo candido, i denti anneriti dal tabacco.
Avevo portato Massimo con me, ne fu felice, gli accarezzò la testa e le guance, fece cenno di sedergli accanto e volle che gli tenessi una mano: mi stava chiedendo a suo modo perdono e forse anch’io lo stavo perdonando, non ci guardavamo negli occhi (non ci siamo mai guardati!), sentii il suo respiro farsi calmo e prendere sonno, un sonno leggero, come un vento che stava seccando tutti gli sputi del mondo.
(Questo racconto ha vinto il I Premio al “Città di Cattolica” e all’anconetano “Voci nostre”).
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Luigi Arena
Nasce a Napoli nel 1950. Laureato in Pedagogia, esercita la professione di Funzionario presso l’Ufficio Scolastico Provinciale di Rimini. Tra le pubblicazioni si ricordano Una gran voglia (silloge inedita al Premio Letterario Nazionale “Il Simposio” a Buccino) e la raccolta di poesie Dimagra la luce (quaderni dell’Associazione “La poesia salva la vita” di Asti).
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