di Filippo Davoli
Quand’eravamo ragazzi, mi capitavano sempre in sorte compagnie di amici più grandi: di poco, magari solo un anno; ma sempre più grandi. Il mio senso di inferiorità, la vasta schiera di fissazioni e di complessi che mi portavo appresso, mi spingevano all’aumento fasullo dell’età: di poco, magari solo di quell’anno che mi restituiva alla pariteticità con gli altri.
Anche nell’antologia curata da Garufi, sui poeti del Novecento nelle Marche, appaio come un sessantaquattrino: un biglietto da visita per me inconfondibile, che si raccorda agli anni in cui la mia scrittura è uscita per la prima volta dal cassetto, proprio grazie all’interessamento di Guido. Poi, a un certo punto, il tagadà s’è rovesciato: nella mia compagnia di amici, solo gente più giovane, magari solo di un anno. Da quel momento, non ho più ottemperato all’adeguamento: mi ritrovo ad essere sistematicamente il più grande; man mano che gli anni passano, il più vecchio.
C’è una segreta dolcezza, nell’invecchiare. Una diversa serenità nell’approccio alla vita. Una sorprendente semplicità. A ragione, nella sua ultima intervista (rilasciata a Rita Madaro di Radio Taranto nel 1978), Mina afferma con decisione: “Nessuno deve avere paura di invecchiare!”: non solo perché non invecchiare significa fermarsi prima…, ma proprio per questo sguardo disteso e al contempo sintetico, per questa appropriazione di sé che a vent’anni si intuisce come un traguardo e si cuce come un vestito che però non si possiede.
Folle: dentro mi sento ancora un bambino, con tutte le precarietà e le paure del ruolo, ed anche con gli slanci improbabili verso la dimensione dello scherzo, della battuta, del gioco. Tiro tardi per il gusto di farlo, non mi lesino le passeggiate ai Luna Park (con qualche affondo imprudentissimo sugli autoscontri: ho scoperto che funzionano egregiamente per disinstallare i calcoli renali dall’uretere, ma per la schiena sono letali!), se mi portano in discoteca ballo convinto anche quando le ginocchia mi suggeriscono che sarebbe meglio darci un taglio. E tuttavia, se non tiro tardi, non vado ai Luna Park, non mi portano in discoteca, sto benissimo lo stesso. Vivo in pienezza gli attimi, che da ragazzo trascuravo in funzione del tutto. Il tutto, cioè, appartiene agli attimi: tento di dilatarli, ma senza scommessa. Limitandomi, cauto, ad accorgermene.
Il mio amico Roberto ne fa ancora parte. Oggi la sua voce è quella di una preziosa conferma. Lui, del ’64 per davvero, là è rimasto: muovendosi, ma da dentro, verso la mia dimensione.
Qualcosa ci è sempre rimasto, amaro vanto, di non ceduto ai nostri abbandoni (come scrive Cardarelli): eravamo spartani, in quegli anni. Non vivevamo con le pulsazioni in fronte. Ci davamo delle regole. Sapevamo della nostra reciprocità amicale, ma senza esagerare. Dribblandola dentro un corso cittadino, nell’ora rituale del passeggio. Convogliandola nella brigata, nelle prime conquiste difficili, nei che fai questa sera? di cui si costellano le terribili fragilità emotive dei ventenni, in attesa della risposta che si desidera (c’è una bellissima poesia di Saba che richiama questo desiderio-dolore, anche se nel suo caso si trattava di un’amicalità più sversata sul sentimentale…).
Roberto è un tipo intelligente. Un’intelligenza strappata alle Lettere, dico io. Il suo stipendio mi rimbrotta che gli è andata meglio così, e non discuto. Ma contemporaneamente non mi sono mai rassegnato alla mia impressione. Comunque sia, le nostre distanze si vanno colmando anno dopo anno. Gli prese, qualche anno fa, la mania della storia: sarà che del periodo che ci è toccato in sorte un po’ tutti si sono presi – e si stanno prendendo – la briga di stendere copiose analisi, fatto sta che quelli della mia – della nostra – età guardano con maggior favore al passato remoto (il Medioevo, la Classicità…).
Siamo nati nel caldo degli anni ’60 – dopo l’avvento del Gruppo ’63 e a ridosso del ’68 -; abbiamo toccato con mano – anche se mano di bambini e poco meno che ragazzi – gli orrori del terrorismo nazionale e gli choc degli attentati alle stazioni e alle piazze, l’incubo dei frequenti sequestri di persona senza ritorno, le sparizioni nel nulla, i triangoli delle Bermuda, i compromessi storici e quelli isterici e tuttavia non la pienezza drammatica e tragica di una guerra in diretta (meglio, certo: meglio vivere in uno stato di pace attentato piuttosto che in uno stato di guerra dichiarato; però confuso, il nostro vivere: perché quello era un cancro devastante, dentro un organismo imbellettato); la storia di cui oggi altri parlano, con la freddezza della distanza, noi l’abbiamo sfiorata da vicino con un cuore che non filtrava gli eventi (a quell’età non si può).
Tutto quello che ci scoppiava intorno e davanti ci risuonava dentro in maniera fantasmatica: tutto vero e tutto, parimenti, come un incubo colossale. Come un film di quelli che non si potevano vedere quando, dopo Carosello, volenti o nolenti ci spedivano a letto. Ma a noi bastava, questa è la differenza. Poi ci pensava la vita di tutti i giorni a farci incamerare parole che non comprendevamo, di cui capivamo soltanto che non erano belle, che non rimandavano a lieti eventi. Da quelle macchie, da quei buchi, si tornava calpestando le vie del paese, fianco a fianco con i compagni di banco, trovando il gusto di una battuta fine a se stessa, ma fortemente sdrammatizzante: a quell’epoca, noi ragazzi eravamo ancora ragazzi. La scuola, marinarla era una sfida che, se veniva scoperta si cedeva, con l’onore delle armi, di fronte all’avversario che ci aveva stanato. Ai nostri diritti corrispondevano ancora i nostri doveri, piacevoli o snervanti che fossero. Non ci hanno abituati a sentirci il centro del mondo; non ci hanno allevati a pane e psicologia; l’unica pedagogia, di fronte a una marachella un po’ più vistosa, era quella del piede destro del genitore, che inesorabilmente centrava il Nord-Nord Est del nostro gluteo.
E quando è finita la scuola, è arrivato il lavoro. In quegli anni, con l’aria che tirava, c’era poco spazio per il divertissement intellettuale; scrivere era, agli occhi dei più, un vezzo strano (o una possibilità di essere mantenuti). Per i miei amici, poesia o non poesia, ero – mi dicono – un tipo abbastanza strano, fuori dalle mode, curioso, sui generis. Quando me lo raccontano, mi sento male, me ne vergogno anche un po’. Ma so perché succedeva: ad esempio, portavo il cappello come un biglietto da visita, come un modo per uscire da me stesso e relazionarmi. Mi alzavo sopra la mia testa per atterrare coi piedi sulla terra. Siglavo i miei limiti corporali (se non stai al margine, come vivi il contatto?, mi disse folgorandomi Gianluca D’Andrea, la volta che venne a Macerata a leggere nella rassegna che organizzavo).
Per quelli della nostra età, lavorare nel settore culturale o dello spettacolo era una boutade: quelli della tv ci parevano non veri, non di carne ed ossa. L’Università rappresentava – per insegnarci – un privilegio per genî; di certo non per i più, chiamati – tutti quanti – a barcamenarci inventandoci una dimensione, un’identità.
La nostra vita è andata di fretta, anche se l’abbiamo rallentata in ogni modo, imponendoci inconsapevolmente di non crescere: così, come diceva la canzone, siamo diventati vecchi senza diventare adulti. Ci voleva del talento, sottolineava la canzone: l’abbiamo avuto. O forse – vista dalla nostra parte – adulti lo siamo sempre stati, ultimi figli dell’educazione, del lei da dare ai più grandi, del permesso da chiedere in casa altrui; adulti nell’abbozzare, nell’attendere il turno che ancora non arriverebbe, se non ci fossimo imposti uno sguscio dall’altra parte del mondo (sia nel lavoro che negli affetti), pur di non venire meno agli insegnamenti ricevuti (e accolti) e tuttavia nemmeno alle nostre cellule che chiedono di che morte, con che nome, morire, ora che di anni ne abbiamo più o meno cinquanta.
Eternamente di un’altra epoca, eternamente aperti al futuro. La nostra è stata davvero una generazione di mezzo: mezzo per i più vecchi al fine di esercitare indisturbati un potere; mezzo per i più giovani per sollevarsi e sottolineare un distinguo. Ma soprattutto noi, alfieri di ogni diplomazia – e qualche volta della rassegnazione – ci sentiamo di mezzo! Qualche volta, prima, ci sentivamo pure di troppo. Oggi ci sorprende pensarci ormai pienamente adulti, manifestare un discernimento sulle cose, finanche indovinare. Scoprirci cioè addosso un’esperienza che dà frutti. Vent’anni fa ci dicevano di aspettare il nostro turno: ora i trentenni ci dicono di farci da parte, perché tocca a loro. E i vecchi – che non hanno mai mollato la presa con noi – li appoggiano, si rifanno la verginità con loro. Come il nonno di Sartre ne Le parole, illuminante autobiografia e involontaria fotografia sociale del filosofo francese.
Abbiamo fatto cose serissime continuando a giocare. Soltanto dopo abbiamo capito. Ma anni dopo, mica due giorni!
Il tempo della radio, per esempio: dal 1984 al 1996, con varie mansioni, ho trasmesso in un’emittente locale. Programmi d’intrattenimento la domenica mattina, radiogiornali, spazi con ospiti, trasmissioni per bambini, notturni, radiodrammi… il programma che ricordo di più e con più nostalgia lo facevo proprio con Roberto: era una saga di personaggi che sbucavano dalle nostre frequentazioni; talvolta avevano il nome di qualcuno che ci stava antipatico, modificato solo in parte – perché ascoltando capisse senza potersi rivalere; talaltra ne precisavano un difetto di pronuncia, o una cadenza; talaltra ancora ne venivano fuori scenette di fantasia, risolte sul come naturalmente le vicende si potevano smatassare, qualora il miracoloso mosaico delle coincidenze fortunose e fortunate si fosse inceppato.
In radio abbiamo fatto teatro, abbiamo imparato a parlare, a congetturare, a dialogare in modo formale, ci siamo innamorati e disamorati, ci siamo accostati al jazz e al rock, abbiamo imparato la pronuncia inglese e demistificato le notizie dei giornali: abbiamo conosciuto il mondo da una scatola. Ci ha segnato così tanto, quel periodo, che la radio la facciamo ancora, a tempo perso, sotto mentite spoglie. Per non perdere il gusto di rimetterci in gioco, mentre abbiamo continuato a giocare.
Eppure noi non ci siamo mai detti ti voglio bene. L’avremmo forse voluto, chissà… per vincere una remora, per appropriarci di uno spazio, per violare uno schermo. Tuttavia non l’abbiamo mai detto. Non dico solo io e Roberto: dico noi della nostra età. Tutti noi. Ce lo siamo dimostrato, semmai. Nella limpidezza delle piccole cose. Qualcosa ci è sempre rimasto, amaro vanto, di non ceduto di noi stessi.
Ma quanto a responsabilità, anche laddove pareva non fossimo capaci di nulla, siamo divenuti solidi come rocce. Quanto a chiarezza d’intenti forse meno – ma non per causa nostra; o, semmai, per merito nostro, per questo nostro ostinato non concederci a strategie da tavolino, pessimi giocatori di Risiko, sebbene il gioco in sé ci piaccia molto. Lucidissimi, invece, sui presupposti e sulle conclusioni: direi quasi lapidarî. Esaustivi. Diretti. Addirittura troppo scoperti, e senza un filo d’ingenuità. Ché non ci vuole un trattato per lamentare un dolore o per testimoniare un affetto. Non serve la scienza: serve la coscienza.
Così, Roberto può vivermi a cinquanta chilometri di distanza senza frequentarmi più assiduamente come quando eravamo piccoli: non cambia nulla. Non è il numero di occasioni condivise a cementare la nostra umanità. Non sono i cenacoli belli, i conversarî infiniti, a dare corpo a una reciprocità. Quelli crollano come i muri, come le statue dei dittatori, al primo agitarsi consistente delle fronde. Chi ha in sé anche soltanto la certezza della propria precarietà, resiste. Incolume.
Se giungesse, una buona volta, mi dico, la grazia di un vento riconciliato, rasserenato; se si aprisse ai nostri occhi in pienezza la potenzialità del nostro esserci così come siamo, ricchezza scambiata per povertà di mezzi – mentre per i più avveduti era ed è il pericolo maggiore per il mantenimento di logiche stantie, sì da ricacciarci sistematicamente indietro con l’indifferenza e l’oblio, mentre con altre età si sfoderano il migliore dei sorrisi e la più subdola delle premure – io sento che davvero la nostra età saprebbe dire e dare molto, a questo tempo pieno di ferite.
Soltanto questo ci è sempre mancato.
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