Cardarelli, nonna Giovanna e l’arte dell’incontro

Un'escursione letterario-affettiva di Davide Tartaglia

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Davide Tartaglia

di Davide Tartaglia

Ho sempre creduto che l’arte, la poesia, la letteratura fossero innanzitutto il frutto imprevisto di un incontro. Oggi, più che mai, l’accadere di un miracolo, di una luce nuova nel pullulare caotico di stimoli luminosi a cui la contemporaneità cerca di assuefarci.

Ho sempre creduto che l’arte nascesse molto più dalla terra, meglio se sporca e impastata di pioggia, dalla strada dove la vita brulica, si sfalda e si ricompone imprevista, più che dall’accademia, dalle cattedre.

Ho incontrato la poesia negli occhi di mia nonna Giovanna, nelle sue mani nodose indurite dall’acqua asciugata al vento gelido, dai concimi e sporche di sangue rappreso. Non sapevi mai se il sangue le provenisse da qualche ferita o fossero le tracce di qualche animale appena ammazzato.

Mia nonna si spaccava la schiena per un pezzo di pane eppure era così certa che si può vivere un giorno senza pane ma nemmeno un istante senza bellezza.

Tutti i libri che ho preso in mano, che ho divorato, sui quali ho pianto li ho letti per capire di più cosa dicevano gli occhi di mia nonna.

Proprio per questo ho infatti sempre creduto che l’arte fosse anche una responsabilità, che non tutte le parole potessero essere usate per raccontare come lei mi guardava, non tutte sono buone a raccontare le mattine d’estate che entrano dalla finestra e i piccioni che volano via dal davanzale. Per questo vanno scelte con cura, per questo l’arte è anche e soprattutto lavoro, sudore, scavare nel silenzio, grattare le porte dell’indicibile, sostare religiosamente sulla soglia del mistero.

L’indimenticato Pagnanelli, commentando l’opera di Caproni ne da una definizione precisissima: “Occorre costruirsi un camminamento stabile sull’argine del silenzio, dai bordi sfrangiati. L’unica potenzialità della poesia risiede nel discorrere ‘tremando’ sul filo e solo dell’impossibile è giusto e doveroso interessarsi”. Solo di questo impossibile e imprevedibile incontro è doveroso interessarsi: Pavese l’ho letto a diciotto anni ma poi l’ho incontrato a venticinque, il Dostoevskij dei Fratelli Karamazov l’ho letto a stento una prima volta e poi l’ho incontrato davvero, divorandolo tutto d’un fiato, solamente alla seconda lettura.

A volte credo che certi libri vadano fatti riposare, sedimentare e poi tentare di nuovo l’approccio; occorre aspettare che il miracolo avvenga e che la luce si conceda. A noi spetta solamente farsi trovare preparati.

Qualche giorno fa ho incontrato Vincenzo Cardarelli. L’ho trovato nella libreria polverosa che un’anziana signora ha lasciato incautamente nel suo vecchio appartamento concesso in affitto ad un mio caro amico.

La prima cosa che faccio, quando entro in una casa che non conosco è perlustrare attentamente con lo sguardo lo spazio dedicato ai libri. In ogni casa, soffitta, c’è sempre un angolo organizzato per ospitare i libri, a volte, per i più fortunati, una parete intera o addirittura una stanza, più frequentemente solo un piccolo scaffale insieme a dvd, vecchie vhs o cd musicali. La libreria è una sorta di presentazione, di biglietto da visita, spesso si capisce molto di più della persona che abita la casa da una rapida analisi dei titoli disposti in libreria che da mille parole.

Per questo motivo, ogni volta che oltrepasso la soglia, mi ritrovo nell’impaccio di dover dissimulare il mio sguardo irrimediabilmente rapito che indugia sugli scaffali della libreria, altre, quando sai che con il padrone di casa puoi prenderti ogni tipo di libertà, mi concedo di dichiarare esplicitamente il mio interesse. L’amico dell’altra sera mi vuole bene e sa essere anche molto indulgente. Dunque, ne ho approfittato e, dopo una prima sbirciata, gli occhi ricominciano la rassegna più lentamente, fino a che, puntualmente, mi ritrovo ad attingere a piene mani, scartare, sfogliare, leggere le prime righe, abbandonarle ed infine riprenderle.

Possono nascondersi delle gemme. E che bello pensare che sono lì, nel silenzio e splendono ricolme solo della loro bellezza senza bisogno di strepiti, di attirare attenzione. Possiedono una compostezza e una dignità incrollabili, come le regine quando invecchiano: splendono di una grazia innaturale, la pelle, inevitabilmente più sensibile alla forza di gravità, non è capace di oscurare la loro bellezza originaria.

L’altra sera, tra i polverosi scaffali della generosa signora, ecco che scovo un libricino nascosto da pesanti volumi di Storia della Letteratura contemporanea (la signora deve essere una professoressa di Italiano): Vincenzo Cardarelli, Poesie, Mondadori, IV ristampa del 1974. Di Cardarelli ho letto poco, poesie qua e là, qualche prosa e alcuni testi comparato in degli studi critici. E’ uno degli autori dell’infinita lista preceduta dal severo imperativo: “da studiare”. Ma Cardarelli in questa lista ha sempre avuto un posto particolare fin da quando il mio maestro, leggendo una mia poesia dedicata a mia nonna Giovanna l’aveva rapidamente bollata come ‘cardarelliana’. Credo, ma con lui non si può mai dire, che fosse un complimento.

Prendo in mano il libercolo: la copertina è sgualcita, ingiallita ai bordi e ha quell’odore di pagine antiche impregnate di parole depositate, stratificate.

Lo apro lentamente – soprattutto con la poesia faccio spesso così, quasi per paura di rovinarla, quasi per non banalizzarne il segreto – e scorro le prime pagine con la presentazione biografica dell’autore e i cenni critici di Giansiro Ferrata.

La vista per me, soprattutto in questa fase, è il primo senso fondamentale nella lettura di una poesia e dunque, visto il poco tempo a disposizione, scelgo le pagine che lasciano ampio respiro alla parola, dove lo spazio bianco ha una sua ben precisa collocazione, una struttura quasi architettonicamente giustificabile.

Ho letto:

 

ESTIVA

Distesa estate
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore
ci si risveglia come in un acquario
dei giorni identici,astrali
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi
felicità degli spazi
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca
stagione estrema,che cadi
prostrata in riposi enormi
dai oro ai più vasti sogni
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.

 

Ho chiuso il libro. Ho avuto la certezza di aver incontrato Cardarelli e anche la certezza che mia nonna fosse ancora viva, ancora lì, con il profilo piegato ad accarezzare la terra, nella stagione dei tramonti lunghi che ha la cadenza dell’indugio eterno

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Vincenzo Cardarelli

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