“La morte s’arrota
la dentiera sopra i tetti”

Viaggio verso Luigi Di Ruscio, passando per Amelia Rosselli, Helle Busacca e Elsa Morante

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CICCHETTI

Giandomenico Cicchetti

di Giandomenico Cicchetti
Per gli stoici, come pure per i nipponici, e molto più tardi per i romantici, il suicidio è atto di estrema, definitiva ribellione: si potrebbe mai mettere in atto una protesta più forte di quella del rinunciare alla propria stessa vita? E quale messaggio più forte, più viscerale di questo macabro sentore potrebbe mai trasmettere la poesia? Pure, questa ribellione rischia di collimare con la più profonda rassegnazione: in virtù del tremendo pricipio per il quale la sorte riesce a proiettare un raggio di vanità e di ridicolo persino sugli intenti più nobili; e il grido, furioso, della propria rabbia al mondo, può mutarsi improvvisamente nel computo delle proprie lacrime atterrite.

Nel 1968 Elsa Morante pubblica uno dei suoi capolavori, Il mondo salvato dai ragazzini; libro singolare, di difficile classificazione, tanto che la Morante stessa scrive di esso: <<è un libro, se per libro s’intende un’esperienza comune e unica, attraverso un ciclo totale (dalla nascita alla morte e il contrario). Ma se per libro s’intende un prodotto d’altra specie, allora questo non è un libro>>. Le poesie e i pometti che compongono Il mondo salvato dai ragazzini, ci rapiscono grazie alla loro intensità, alla crudezza di alcuni tratti e alla delicatezza di altri; sono scritte con stili diversi, con diverso lessico, come se l’irrequietudine dell’animo trasparisse dall’irrequietudine della lingua, utilizzata in modo sempre differente: più che alla diversità del contenuto, omogeneo in tutto il libro, queste differenziazioni paiono imputabili a variazioni umorali. 

MORANTE

Elsa Morante

 

Come un compositore sinfonico che affida il tema di un movimento a strumenti di volta in volta diversi per evidenziarne la richezza e la complessità, per far sì che l’ascoltatore possa meglio percepirne tutte le sfumature e le implicazioni, così la Morante utilizza le voci e le vite di diversi personaggi: per declinare in tutte le varianti possibili il suo requiem: il suo canto funebre: che comincia nell’atmosfera spettrale di un silenzio illune e termina fra sospiri di rimpianto e nostalgia; nel mezzo, sta un incantevole canto di ribellione: soltanto chi si ribella esce dalla sterminata cerchia degli Infelici Molti per entrare a far parte dei Felici Pochi, e salvarsi dalla bestia nera del potere che – come la Morante ha scritto in un altro capolavoro, La storia – “immerda” sia chi lo esercita sia chi lo subisce. Prescindendo dall’irritante stereotipo dell’artista maledetto e ribelle, possiamo egualmente tentare di rintracciare i componenti della genia del Rimbaud: i poeti eternamente adolescenti e randagi che hanno ricercato nella ribellione la salvezza; e che, troppo spesso, hanno trovato la dannazione.  

Rosselli

Amelia Rosselli

Luigi Di Ruscio, Amelia Rosselli e Helle Busacca hanno tre esperienze molto diverse fra loro. Quando, nel 1957, Di Ruscio emigra da Fermo in Norvegia per fuggire la disoccupazone e la povertà, ha 27 anni e ha già pubblicato la sua raccolta d’esordio; e in Norvegia morirà nel 2011: Di Ruscio è un espiantato, non tornerà più ad abitare stabilmente nel suo paese; tuttavia, deve riconoscersi che è un espiantato di una specie alquanto particolare: continuerà a scrivere in Italiano e a pubblicare in Italia, le sue opere non passeranno mai inosservate nell’ambiente letterario italiano: Le streghe s’arrotano le dentiere, nel 1966, sarà pubblicato con una prefazione di Salvatore Quasimodo e Enunciati, nel 1993, sarà curato da Eugenio De Signoribus; ma ancora più interessante è che Di Ruscio contiuerà a parlare della sua terra, che le incursioni dialettali nell’italiano dei suoi versi non cesseranno mai, che l’antologia delle sue poesie scritte tra il 1953 e il 1999 – e pubblicata proprio nel 1999 – reca il titolo di Firmum. Lineare è dunque, sotto questo punto di vista, il percorso di Ruscio; mentre quello della Rosselli è molto più travagliato e frammentario: nata in Francia ed emigrata, ancora bambina, a seguito dell’assassinio del padre e dello zio (rispettivamente, Carlo e Nello Rosselli) per mano dei fascisti, la Rosselli abitò dapprima in Svizzera, poi, con l’arrivo dei nazisti in Francia, si trasferì in Inghliterra; emigrò alla volta del nuovo continente, passando per il Canada, e giungendo agli Stati Uniti; tornò per un breve periodo in Italia, poi si trasferì a Londra, dove terminò gli studi; nel 1948 tornerà nuovamente e definitivamente in Italia, e l’anno seguente subirà un nuovo trauma: la morte della madre, che muore a Londra, mentre lei è in Italia. La Rosselli stringerà un’intensa e fraterna amicizia col poeta Rocco Scotellaro, la cui prematura morte contribuirà ulteriormente a destabilizzare la poetessa, costituendo per Amelia l’ennesimo, insopportabile lutto. Infine, ancora completamente diversa, è la vicenda della Busacca: fino ai setti anni vive nel paese natale, in provincia di Messina; si trasferisce a Bergamo, poi a Milano per studiare lettere classiche; dopo la laurea eserciterà – oltre alla scrittura e alla pittura – la professione di insegnante in svariate città italiane, Firenze per ultima, dove morirà: la Busacca non metterà mai radici, non si sposerà mai, non troverà mai un luogo dove prendersi cura della sua vita, oltre che della sua arte: il suo esilio, dunqe, pare in realtà tutto interiore: pare consistere nel relegarsi forzatamente in una dolorsa dimensione emotiva: l’angoscia della solitudine; provocata dal suicidio del fratello Aldo, dalla disgregazione della famiglia, dalle delusioni amorose. 

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Luigi Di Ruscio

Che cos’hanno in comune Luigi di Ruscio, Amelia Rosselli, Helle Busacca? Probabilmente, innanzitutto, sono accomunati da una tendenza ad essere messi da parte, accantonati: ingiustamente; forse, condividono anche lo stesso mauavais sang rimbaldiano. Leggendo Firmum di Di Ruscio, Variazioni belliche della Rosselli, I quanti del suicidio della Busacca, avvertiamo subito un’affinità del timbro del canto; un canto arrochito dall’angoscia della rabbia: il registro è greve, l’andamento rapido, in Di Riuscio, uniforme in modo martellante, scevro da pause o accenti di punteggiatura, un unico flusso ininterrotto, perfettamente misurato nel suo essere fuor di controllo: <<tutta una variante della stessa angoscia>>, come leggiamo nella poesia che chiude l’antologia Firmum; nella Rosselli, come ha rilevato la critica, la punteggiatura ha invece la funzione opposta, serve a coadiuvare la musicalità dissonante, da composizione contemporanea, del verso, come se la pagina fosse uno spartito: i punti e virgola e i due punti, come i punti esclamativi, tanto più efficaci quanto fuor di luogo, sono come alterazioni e cambi di tempo: sono diesis e bemolle, pause di singultanti sedicesimi, che scandiscono l’irregolarità della musicalità e rendono atonale la composizione: raggiungendo un’insospettata armonia; nel caso della Busacca, ci è dato riscontrare una sorta di via di mezzo tra le due conclusioni estreme: la punteggiatura non viene completamente abolita, né viene utilizzata alla stregua di un singolare strumento compositivo: piuttosto, ha una sua programmatica irregolarità, una funzione enfatica che, assieme ad altri elementi della poesia della Busacca (la prosasticità, le descrizioni vivide e crude, gli stralci di lettere del fratello suicida inseriti tra i versi, le citazioni ricercatissime abbinate ad aneddoti della più squallida quotidianità, le teorie scientifiche combinate con invettive e imprecazioni), contribuisce a creare lo stile unico di un poema che è un grido di rabbia e disperazione: di ribellione e di morte: ne risulta un registro che tende ad essere impudico, sguaiato, stridulo, nelle sue invettive più dure e spietate: ed è forse in quei momenti che, sorprendentemente, ragginge il suo apice poetico.

Due forti sentori determinano i versi e scaturiscono, ancorché in modi differenti, dai versi di questi tre grandissimi poeti:

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Helle Busacca

l’esilio e il suicidio; sentori, non eventi; ma spesso ciò che non viene vissuto, ciò che è omesso, ha lo stesso peso dei grandi accadimenti: proprio perché fa venir meno la coincidenza tra l’interiorità e l’avvenimento esteriore, rendendo difficoltosa la già ardua operazione dell’identificarsi nella realtà da cui si è circondati: se il suicidio di Aldo è per Helle un evento irremovibile, una tragedia che la segnerà a vita; se per la Rosselli il suicidio è l’evento ultimo che pone fine ai suoi giorni, che – presumibilmente – costituisce la via d’uscita dalla follia, dalla malattia e dalla depressione che la affliggevano negli ultimi anni della sua vita, ma è anche coronazione del costante sentimento di morte che pervadeva la poetessa, scaturito dai traumi dei lutti subiti nell’arco della vita; per Di Ruscio, invece, il suicidio rimane mero sentore, inattuato, ma ben presente nella poesia e nel poeta, che scrive: <<invece di suicidarmi decisi di vivere come se fossi morto>>.

Basta leggere una manciata di versi di questi poeti per rendersi conto che i lapsus e le ripetizioni che li accomunano e li caratterizzano, la tendenza ad articolare – tramite riprese e ripetizioni – un unico tema in tutte le sue varianti, l’energia distruttiva che promana dalle loro poesie, sono un tutt’uno; un’unica ribellione che presenta differenti declinazioni: se nella Rosselli quest’inquietudine assume i lineamenti di un’ansia metafisica, dove persino le voci che vengono dai bar smentiscono i dubbi che nella notte sorgono sulla fede e miriadi di possibili “se” passati al vaglio dei versi soccombono al sentimento dell’impossibilità dell’amore, nella Busacca questa ribellione si incarna in oggetti e cose tanto materiali da trasfigurarsi in simboli d’orrore: la lampadina che veglia il sonno dell’ingegnere suicida, Aldo Busacca, la nebbia che avvolge il mattino della sua nascita, l’inidirizzo esatto dell’appartamento in affitto dal quale Helle viene cacciata: la Busacca ci fa vedere le croste di neve, il registro della scuola, le lettere del fratello: <<ma vedo anche la morte>>, afferma perentoria e orripilata! … sconvolta da questa morte subdola, infida, ingiusta: questa morte acquattata fra gli oggetti che costituiscono l’arredamento materiale e quotidiano delle nostre vite. Egualmente, Di Ruscio vagabonda <<per le strade con gli occhi sentimentali della fame>>, in una perenne condizione di esilio, scacciato a cinque anni dalle ginocchia della nonna; descrive il dramma della vita delle persone che ha intorno, degli umili, dei solitari, dei folli; svolazzando tra gli incubi <<come un gallo spiritato>>, da buon discendente di Rimbaud sa che soltanto rimanendo sospesi tra la vita e la morte si può acquisire <<la veggenza la conoscenza di tutte le cose>>; Di Ruscio descrive la gatta in calore, i cani indomiti che vorrebbero azzannare il vento … ma la conclusione sembra essere, ancora, un’impossibilità decretata da qualche insondabile, inquietante mostruosità: <<e cosa dovrei decidere in quest’ora di notte/ i pensieri s’attaccano ai muri e alle pietre/ la morte s’arrota la dentiera sopra i tetti>>.

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Luigi Di Ruscio



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