Una storia parziale: Umberto Saba e la propria famiglia

Gianfranco Fabbri, poeta e editore, racconta uno dei suoi autori preferiti

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Gianfranco Fabbri

 

di Gianfranco Fabbri

Quando ci accingiamo a scrivere “intorno” al proprio poeta preferito si è sempre colti da una sorta di riverenza eccessiva che ci induce a riporre la penna nel cassetto e a chiudere il quaderno su cui volevamo scrivere l’omaggio. Una cosa del genere deve essere successa anche a Carlo Muscetta, quando il suo già anziano amico, Umberto Saba, più volte lo sollecitò a prendere in mano il suo famoso “Canzoniere” per tentare di sistemarlo in modo definitivo, a livello critico. Vistosi rimandare a data incerta l’incarico impartito, il grande triestino confessò al noto letterato: caro Carlo, se è vero che ami leggere le mie poesie, è altrettanto vero che non desideri parlarne. Questa frase, oltre che a giustificare l’indispensabile preambolo dell’inizio, aiuta anche a farci comprendere la difficile personalità sabiana che, al di là delle superficiali caratteristiche di bonomia e di squisita formalità, riusciva spesso a indurre negli interlocutori uno stato di disagio per il modo che aveva di richiedere all’”altro” una dichiarazione che mettesse la propria poesia fra quella dei grandi autori coevi, come Gozzano, D’Annunzio e Pascoli.

Il primo sintomo della nevrosi di Saba è racchiuso in questa condizione, ma proviene direttamente dalle radici famigliari. Il Nostro nacque a Trieste il 9 marzo del 1883; in quella città crebbe fra le cure amorevoli della madre, un’ebrea della famiglia Coen, e quelle –altrettanto dolcissime- della nutrice Beppa Sabaz, una slava che amò tantissimo quel bimbo, nel quale rivedeva il suo, perduto appena nato. Manca la figura del padre –un aristocratico di origini veneziane, decaduto e irrequieto- che abbandonò la moglie prima che il figlioletto venisse al mondo. Umberto Poli, crescendo, maturò la decisione di cambiare il cognome paterno per sostituirlo con il termine Saba, che era un compromesso d’amore fra mamma e nutrice, in quanto riprendeva, di quest’ultima, le origini, utilizzando nel contempo anche un signi-ficato ebraico, quello di “pane”, che nella lingua materna si dice appunto “saba”.

Il poeta poté conoscere il genitore solo all’età di vent’anni. Madre e nutrice si sarebbero aspettate un’esplosione di rancore, da parte del ragazzo. Invece no. Umberto ebbe una reazione comprensiva, come bene spiega un testo del Canzoniere, appartenente alla sezione intitolata “Autobiografia”, del 1924 :

/ Mio padre è stato per me l’«assassino», / fino ai vent’anni che l’ho conosciuto. / Allora ho visto ch’egli era un bambino, / e che il dono ch’io ho da lui avuto. // Aveva in volto il mio sguardo azzurrino, / un sorriso, in miseria, dolce e astuto. / Andò sempre pel mondo pellegrino; / … / Egli era gaio e leggero; mia madre / tutti sentiva della vita i pesi. / Di mano ei gli sfuggì come un pallone. // “Non somigliare –ammoniva- a tuo padre” . / Ed  io più tardi in me stesso lo intesi : / Eran due razze in antica tenzone. //.

Il giovane quindi non rinnega il padre: piuttosto lo studia, ne ravvede in sé l’eredità, e avverte il “dono” di tutto un corredo biologico: lo sguardo celeste, l’inquietudine e forse anche quella tardiva fanciullezza che sollevava il padre dalla mancata responsabilità nei suoi confronti. Iniziano così a cementarsi le tematiche del Canzoniere: arriva adesso, in ordine cronologico, (siamo nel 1910-11), la sua identificazione con Trieste, resa evidente nel famoso pezzo che contiene una delle più belle similitudini del Novecento italiano:

… / Trieste ha una scontrosa / grazia. Se piace, / è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore; / come un amore / con gelosia. / …

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Umberto Saba

Un erotismo nudo, senza difese, posto in azione anche dagli enjambements, che sviluppano uno stato di allerta, a metà strada tra l’ambiguità e l’aggettivazione vivace). Il Canzoniere è il grande romanzo in versi del nostro Novecento. Saba non rivelò appieno questa sua intenzione narrante, come più avanti nel tempo fece Bertolucci, con la sua Camera da letto. Il Canzoniere è composto da raccolte separate, che possono benissimo vivere di autonomia completa. Quadri che si svelano, un titolo via l’altro, come ad esempio, fra i tanti: “Poesie dell’adolescenza e giovanili”, “Versi militari”, “Trieste e una donna”, e, via via, su, fino a “Preludio e canzonette”, “I prigioni”, “Il piccolo Berto”, “Ultime cose” , per giungere poi a “Sei poesie della vecchiaia” e ad “Epigrafe” . Ora, con il ricordo, rimaniamo ai primi anni del secolo. Sistemata la figura del padre e quella della città di nascita, Umberto si avvicina al grande incontro della sua vita: quello con sua moglie Lina, conosciuta per caso, grazie alle indicazioni dell’amico Giorgio Fano, il quale gli aveva raccontato le vicissitudini di quella ragazza, fiera e risoluta, abbandonata dal suo uomo, dopo che lei lo aveva aiutato ad uscire dal confino politico. Umberto, ravvisando in questo fatto una chiara allusione a quello vissuto da sua madre, va in cerca di questa Lina Wölfler, nella strada in cui abita. Siccome non ricorda più il numero civico dove fermarsi, il giovane va su e giù, a casaccio, fino al punto in cui scorge, affacciata a un balcone, una ragazza dai capelli lunghi e nerissimi, la quale è tutta intenta ad innaffiare dei gerani. La sconosciuta ha un portamento altero e deciso, che colpisce fortemente il poeta: “Chiunque sia quella ragazza, sarà mia moglie”  pensa, tra sé e sé, d’istinto. Così fu.

Il Canzoniere si arricchisce così di un fondamentale capitolo:

Quando triste rincaso e lei m’aspetta / alla finestra, se la bella e cara / moglie, ad un gesto, il mio male sospetta, / se il disgusto mi legge, od altro, in faccia, / tosto al mio collo le amorose braccia, / come due serpi vigorose, getta; / me solo accusa la sua voce amara. /… (“La moglie”, da “Trieste e una donna”)

/ Ora se in strada accanto a me ti sento /(sia vero o falso) tosto il passo affretto; / eppure credi che non io pavento / rivedere quel colpo in mezzo al petto. /… (“Nuovi versi alla Lina” da “Trieste e una donna”)

Per quante notti che insonne ho giaciuto, / per l’orrore di levarmi ogni mattina, / tu buona, tu mia dolcissima Lina; / tu dimmi in carità : Come hai potuto? //… (idem)

Dico: «Son vile …» ; e tu : «Se m’ami tanto / sia benedetta la nostra viltà» / « … ma di baciarti non mi sento stanco» . / «E chi si stanca di felicità?» //… (idem)

Per non parlare della famosissima “A mia moglie”, un testo in cui Saba paragona la consorte agli animali più impensabili. Questo scampolo di brani, pure se in frammenti, riesce a disegnare compiutamente il legame tra i due innamorati. Non tutto però andrà liscio, all’inizio: già nel 1911, un anno dopo la nascita della figlioletta Linuccia, la moglie si innamora del pittore triestino Renato Maier e abbandona il tetto coniugale, per qualche mese. Tornando poi all’ovile, viene

Montale-giovane

un giovane Eugenio Montale

accolta con affetto da Umberto e, da quel giorno, Lina vivrà per il suo uomo con totale senso di abnegazione. La figura di lei, con il passare degli anni, diviene leggendaria. Donna di scarsa cultura, ma di vivissima intelligenza, sarà sempre una perfetta padrona di casa, anche nelle occasioni più scabrose, come quelle relative agli anni fiorentini, durante i quali la famiglia Saba è costretta a vivere in semiclandestinità, a causa delle leggi razziali promulgate dal regime fascista. Il poeta avrà in lei un’attenuazione delle sue pene. Nella loro casa, gli amici si troveranno benissimo, in ogni momento. A tutti piace la spartana semplicità della donna, la quale serve il caffè in cucina, alla buona, a personaggi come Carlo Levi, Ottavio Cecchi, Mario Spinella e Eugenio Montale, che, alla morte di lei, scriverà in suo onore un epitaffio rimasto celebre: “Chi ha incontrato Saba, chi ha vissuto un poco con lui, non può pensarlo disgiunto da Lina, la stupefacente, arguta, terrestre Lina, dotata di un umore inalterabile, di una resistenza alla vita che la rendeva tetragona alle prove più avverse che il destino le riserbava. (…) Lungimirante e avveduta; tenera e dotata di una pungente, affilata ironia, a Trieste come a Firenze, (…) Lina Saba fu sempre pari all’immagine che di lei si erano fatta gli amici e gli ammiratori del Poeta”.

La famiglia Saba, a ben pensarci, somiglia a una trinità laica; una specie di triangolazione in cui l’uomo di casa, venerato dalle proprie ancelle, pare quasi avvicinarsi alla figura del primo Pascoli, in mezzo alle sorelle pazze d’amore per lui. Linuccia, da adulta, è per il padre una presenza intellettuale con la quale dibattere e confrontarsi. Ma non era sempre stato così: sin dall’infanzia della figlia, Saba non voleva che la bimba studiasse: lei doveva, al contrario, diventare moglie esemplare  e madre perfetta. Più tardi, invece, la ragazza aveva mostrato di saper scrivere con scioltezza. Si scoprì anche un certo talento per la pittura, al quale ugualmente il padre tentò di opporsi. Linuccia però non si lasciò irretire dalle maglie nevrotiche del genitore e ben presto andò a lavorare a Milano, come segretaria: attività che poi eserciterà anche a Roma, addirittura nello studio di Carlo Levi. La donna, una volta affermatasi presso riviste e giornali, sarà un’ancora di salvezza per Umberto, sempre invischiato in situazioni difficili, alla ricerca di pubblicazioni a pagamento. Il nostro poeta fu però molto dolce con questa sua unica creatura: lo confermano molti testi, fra cui il seguente:

Mio tenero germoglio, / che non amo perché sulla mia pianta / sei rifiorita, ma perché sei tanto / debole e amore ti ha concesso a me ; / o mia figliola, tu non sei dei sogni / miei la speranza; e non più che per ogni / altro germoglio è il mio amore per te. // … // Ti conquisti la casa, a poco a poco, / e il cuore della tua selvaggia mamma. / Come la vedi, di gioia s’infiamma / la tua guancia, ed a lei corri dal gioco. / Ti accoglie in grembo una sì bella e pia /mamma, e ti gode. E il vecchio amore oblia.

Per la famiglia Saba, specialmente negli anni del dopoguerra, inizia una diaspora, come a “parafrasare” la fuga perpetua del popolo ebreo. Lina è sola a Trieste, come una afflitta Penelope, in attesa che il coniuge torni dalle sue penose puntate per le città d’Italia; Umberto, appunto, è sospeso in una sorta di limbo sbiadito, bene rappresentato dall’epistolario intrattentuto con la moglie e con la figlia, ormai romana a tutti gli effetti. Negli anni del dopoguerra, il Nostro viaggia non solo per guadagnare qualche soldo, ma anche per soggiornare in alcune cliniche, a causa dell’aggravarsi della depressione. E’ anche la stagione dei rancori politici, indirizzati soprattutto ai suoi concittadini, che accusa di essere reazionari e fascisti: lui è da sempre uomo di sinistra, vicino al PCI. Ce l’ha anche con i vecchi amici di penna, come Montale, verso cui lancia strali in quanto favorevole all’esclusione dei comunisti dal governo. La malattia nervosa di Saba si aggrava: egli, più che mai, è convinto che i critici lo brucino con la loro indifferenza: si dichiara “animale in cattività”, anche se poi, a Milano come a Roma, egli riesce a trovare il calore di qualche buon ospite. Come dicevamo sopra, le lettere di questi anni sono nel tempo divenute famose; scrive alla moglie, lagnandosi della pessima qualità delle camere in cui dorme, e dichiarandosi umiliato dai continui solleciti che deve fare ai giornali e agli editori, per essere pagato del lavoro svolto. Intanto tenta di “piazzare” i suoi Raccontini e le sue Scorciatoie. Piange per l’impossibilità di inviare qualche assegno in più a casa e  vede l‘ambiente letterario come un nido di vipere invidiose. Di questo periodo è Ulisse, tratta da Mediterranee:

Nella mia giovanezza ho navigato / lungo le coste dalmate. Isolotti / a fior d’onda emergevano, ove raro / un uccello sostava intento a prede, / coperti d’alghe, scivolosi, al sole / belli come smeraldi. Quando l’alta / marea e la notte li annullava, vele / sottovento sbandavano più al largo, / per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno / è quella terra di nessuno. Il porto / accende ad altri i suoi lumi; me al largo / sospinge ancora il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore.

Un testo, questo, dove c’è tutto il sentire dell’uomo vissuto nella dualità: fra due diversi Stati, l’austro-ungarico e l’italiano; fra due persone di differenti religioni, l’ebrea e la cristiana; fra due lingue, l’italiano e il tedesco; fra due madri, la naturale e la “affettiva”. Ce n’è, e ne avanza, per scindere in due parti anche l’uomo più forte. Questo totale sdoppiamento accende il suo animo di inquietudine, e di ripudio, per entrambe le sponde della scelta umana.

Emblematiche sono le ultimissime poesie del Canzoniere; in special modo quella che si intitola  Ultima:

Guardo, donna, il tuo cane che adorato / ti adora. Ed io … se penso alla mia vita ! / Variamente operai, se in male o in bene / io non so; lo sa Dio, forse nessuno. /Mai appartenni a qualcosa o a qualcuno. / Fui sempre («colpa tua» tu mi rispondi) / fui sempre un povero cane randagio.

Dopo la morte della moglie, Saba smette di scrivere e non esce più di casa. Le gambe sono paralizzate e la fine è sentita vicina, ma –come afferma Folco Portinari – “Il romanzo si chiude senza colpi di scena. La morte (che avverrà il 25 agosto del 1957, a Gorizia) non è attesa con paura, non è un avvenimento tragico …

Saba

Umberto Saba nel suo studio

Quattro anni prima, nel ’53, in occasione della stesura dell’unico suo romanzo, “Ernesto”, Saba fornisce di sé un’immagine completa della propria personalità: la svela, suo malgrado, a Quarantotti-Gambini, il 20 agosto, nel corpo di una lettera scritta a proposito di quel lavoro: “E’ la storia di un ragazzo che aveva sedici anni a Trieste nel 1889. E’ una cosa incredibile: una rivoluzione (non politica) che viene –come piaceva a Nietsche- su ali di colomba. Non so dirti cosa sia; posso dirti che è una gara fra me e la sventura, fra me e la morte. Sento che basta la più piccola noia, la più piccola grana – e la vita è intessuta di noie e di grane – perché non sia più in grado di continuare”.



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