di Davide Tartaglia
Fin dal XVIII, sotto il giogo di un dogmatismo scientista imperante, si è pian piano andato affermando e formando un pensiero dominante che scontiamo ancora oggi riguardo la “conoscenza”: l’idea che non si possa raggiungere una conoscenza adeguatamente fondata dei fenomeni del mondo (siano essi scientifici o artistici) senza un distacco che elimini il sentimento, l’amore, la passione per il fenomeno indagato.
Solo un freddo distacco asettico, purificato da qualsiasi coinvolgimento emotivo può infine raggiungere una conoscenza vera e certa della realtà.
Con ogni mio saper e diligentia (liberilibri, 2013), ultimo lavoro del poeta anconetano Francesco Scarabicchi dedicato all’opera di Lorenzo Lotto, scardina decisamente quest’idea e mette in evidenza come il sentimento, l’amore, l’ ‘inter-esse’ (nel senso etimologico di ‘essere dentro le cose’), se pur dal ciglio della storia è ciò che permette una conoscenza più vasta dell’oggetto di indagine, una conoscenza non ridotta del reale. “L’amore non rende ciechi, l’amore rende veggenti” diceva Heidegger ed è proprio questa la sorpresa del lettore nel leggere le 61 ‘stanze’ dedicate a Lorenzo Lotto, soprattutto nel caso in cui si reputi un conoscitore del Lotto e della sua arte.
Certo, il testo di Scarabicchi rimane un testo poetico, per cui non ha né la forza né l’ambizione di essere un’analisi critica dell’opera del pittore, ciononostante – ed è proprio questo ciò che sorprende di più – ha il merito impagabile di illuminare in maniera unica la vicenda umana e artistica di Lorenzo Lotto. Impastandosi con lui, con la sua vita ferita, con la sua perenne inquietudine, il disagio, la febbre Scarabicchi apre uno squarcio di luce nella vita del poeta veneziano, racchiusa ancora oggi in dei contorni sbiaditi, e aiuta a coglierne le istanze, l’origine della sua irripetibile opera.
Come scrive abilmente Massimo Raffaeli nella prefazione: “Questi non sono versi di illustrazione a Lorenzo Lotto […] ma piuttosto sono i versi, legati in stanze e alla maniera di un poemetto, in cui Francesco Scarabicchi assume su di sé il destino di un’artista solitario e febbrile”. Il racconto della vicenda lottesca diventa quindi l’espediente di Scarabicchi per raccontarsi, il tormento del pittore l’occasione per capire di più la propria inquietudine, la strada per affondare le mani nell’abisso dell’umano, scavare e portare alla luce quel che resta, quello che rimane.
Questa d’altronde è stata la vocazione del Lotto per tutta la sua vita: allontanandosi dal prestigioso ma asfittico ambiente lagunare, offuscato dal dominio incontrastato di Giorgione prima e di Tiziano poi, il nostro inizia il suo viaggio in provincia, il suo bianco andare tra venti quieti, fra colline d’ombra, dove viene a contatto con l’umanità che più gli interessa: gli ultimi, i diseredati, gli esclusi. Umanità che non esita a riportare nelle sue opere mettendosi in una scelta che pian piano lo porterà ad allontanarsi sempre di più dagli esempi che provenivano da Venezia.
Il lavoro di Scarabicchi si svolge dunque in questo spazio dialogico – solo apparentemente mascherato dall’operazione di immedesimazione del poeta anconetano con Lorenzo Lotto – sia dal punto di vista tematico che del linguaggio. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, Scarabicchi con i suoi versi conduce un’operazione molto simile al gesto artistico del Lotto e, crediamo, non per una progettualità a tavolino che risulterebbe fuori luogo e posticcia ma piuttosto per questa impressionante vicinanza, consonanza d’animo tra i due artisti. La dichiarazione di poetica – che in entrambi è una ferma presa di posizione etica, è uno status esistenziale – è più volte ripresa durante il libro ed annunciata mirabilmente già nella premessa:
Oh, terre del pensiero, immaginari / paesi della nebbia, / case di sabbia e vento / accese d’alba, luce ferita che si insinua ferma / a decretare l’attimo, l’istante / in cui per sempre avviene quel che non si ripete.
La poesia di Scarabicchi (e quindi l’arte del Lotto) si carica su di sé il compito di mettere sulla scena quegli oggetti, quei soggetti abitualmente avvolti nella nebbia, paesi di provincia (le nostre Marche?) per liberarli alla luce, per svelarne l’alba, il fuoco sopito che li incendia. La vocazione della poesia è quella di decretare l’attimo, anche il più insignificante, aprire una breccia dentro l’apparente banalità del reale e andarne a scovare il segreto.
E’ soprattutto questa vocazione che rende Lotto e Scarabicchi due compagni di viaggio a distanza di cinquecento anni: entrambi non hanno l’ambizione di rappresentare l’ ‘eroico’ di Michelangelo o il sublime di Raffaello, per citare due geni contemporanei a Lotto, ma si riscoprono nella necessità di raccontare il santo di strada […] che un nulla affida al solo suo apparire. E allora è proprio questa discesa agli inferi, questo sporcarsi con la realtà quotidiana attraversandone il dolore, caricandolo sulle proprie spalle che rende appassionante l’ ‘amicizia’ dei due artisti agli occhi del lettore.
Non compare dunque mai la necessità di spiegare, aggiungere postille morali; l’accesso al significato è già interamente dato nell’immagine, nella parola. Questo giustifica la forza visiva della poesia di Scarabicchi. In questo processo un ruolo decisivo ce l’ha la luce, tanto nella pittura del Lotto quanto nella poesia di Scarabicchi; una luce che è a tratti rivelatrice e a tratti rivelata ma che non è mai autoreferenziale o retorica:
I corpi, sotto indumenti d’epoca,
li ho conosciuti come forme piene
toccate dal chiarore della luce
che in me non è mai stata ornamento
ma il luogo in cui s’invera la passione
che sceglie, nel colore, vocazione
a dire l’imprendibile che oscilla
tra il nulla e il niente del sipario eterno.
E’ una luce intatta, come la definisce il poeta anconetano in un’altra poesia, integra sia moralmente che fisicamente, che non si vende al successo, alla spettacolarizzazione ma è strumento e oggetto continuo di uno scandaglio più profondo della realtà, l’introduzione ad uno spazio ‘metafisico’, dimensione autentica di ogni cosa.
E questa è anche la rivoluzione ‘lottesca’, la luce assume un compito nuovo che non è quello di Piero della Francesca o dello stesso Giorgione, protesi a rilevare un mondo obiettivo e bloccato in immagini storicizzate; ma, al contrario, proporre un evento in atto, nel suo compiersi, quasi come momento vivo ed inquietante della nostra coscienza.
Le ‘stanze’ di Scarabicchi procedono dunque in un intreccio di vicende biografiche, racconto delle opere del Lotto e riflessioni esistenziali in cui emerge tutta la drammaticità del genio veneziano. Proprio in queste ultime ‘occasioni’ il libro raggiunge forse le sue vette maggiori:
Dove sarò, lasciata questa piaggia,
vie della Marca che percorro errando?
Nel non aver mai luogo il mio destino,
un abitar precario albergo e mondo,
senza dimora alcuna che m’accolga.
L’integrità di fronte al mondo si paga con una solitudine, esistenziale più che umana, ma proprio questo ripetuto congedarsi, il non aver mai luogo, soprattutto nella ricca corte veneziana, nei salotti della ‘società bene’ del tempo lo costringe ad una posizione al margine che è però l’unica capace di scoprire il luogo in cui la passione si invera. A ben vedere dunque, non si tratta affatto di un’uscita dal mondo, ma piuttosto di una purificazione da esso per entrare nel mondo più autentico: quello spesso sofferto e dilaniato della gente comune, degli sconfitti. Dentro questa realtà agitata e tormentata, se profondamente vissuta, sofferta si può cogliere una bellezza capace di spalancare l’umano:
C’è Dio nei miei dipinti, oltre quei corpi
e quelle forme esatte? C’è lui o è solo vuoto
lo spazio in cui m’annego un’altra volta
accosto al domandare?
Se questa solitudine contiene
tutta la pena e tutto lo spavento,
allora perché mai l’intatta luce
accende di bellezza donne e santi,
pastori e pellegrini,
adultere ed arcangeli,
sacra famiglia e orafi,
martiri e gentiluomini?
Una bellezza che percorre gli interstizi della realtà quotidiana, risplende laddove non ce l’aspettiamo e costruisce il ponte tra l’ hic et nunc e un oltre, secondo la definizione del filosofo tedesco Gadamer: “L’essenza del bello non consiste nel fatto di essere semplicemente posto di fronte alla realtà, o contrapposto ad essa, ma nel fatto che la bellezza, per quanto inaspettata possa essere, è come una garanzia che, in tutto il disordine del reale, in tutte le sue incompiutezze, cattiverie, storture, parzialità, in tutti i suoi fatali sconvolgimenti, il vero purtuttavia non resti irraggiungibile in una sua lontananza, ma ci si faccia incontro. La funzione ontologica del bello è appunto quella di colmare l’abisso che si apre tra l’ideale e il reale”.
E’ in questa imperterrita lotta con l’ideale, riconosciuto e a tratti afferrato nella propria opera, che Lotto ha speso la sua vita ed è in questa affascinante tensione – che a ben vedere riguarda ognuno di noi – che Scarabicchi ci conduce con questo suo nuovo libro.
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