di Enrico Marcucci
Ritorni e partenze, del poeta anconetano di origini bergamasche Bruno Cantarini, coglie già dal titolo, netto e conciso, l’emblema drammatico del percorso umano, fatto appunto (come ognuno di noi sarebbe pronto a testimoniare) di ritorni e di partenze, di dialoghi continuamente aperti tra un “io” che instancabilmente cerca un senso nel susseguirsi degli eventi, e un “tu” sempre presente -seppur a volte implicito- che chiede di essere riconosciuto. Un “quid” insito nelle circostanze dei fatti quotidiani che ne è mistero ed infinito, che ne supera la misura in quanto essenza degli stessi e spirito. Un mistero allora, che può gridare forte o far silenzio profondo, che istante dopo istante si fa carne attraverso i volti dei cari, dei ricordi, dei luoghi frequentati e quelli dispersi, nelle cose appena iniziate e in quelle da poco finite, nella gioia di un nuovo arrivo e nel dolore di un abbandono, nella distanza delle stelle e nel bisogno di raggiungerle. Per il nostro poeta però, questo mistero non assomiglia ad un comodo rifugio in cui restare tranquilli in balia del proprio destino, ma piuttosto ad una messa in gioco senza tregua, una partecipazione attiva alla realtà con la lealtà della propria mancanza, del proprio de-siderio (mancanza di stelle appunto), ad un punto di partenza certo che permetta di stupirsi ancora con gli occhi lucidi del bambino nel corpo di un adulto.
Cantarini non vagheggia. I luoghi chiamati in causa sono luoghi tangibili anche nel sogno. Sono la casa, Bergamo, Cupra la campagna (da cui spesso e volentieri ha inizio la scena poetica, come accade “Nell’orto” in cui torna il ricordo del padre), il mare, la spiaggia, Numana, che è pure il titolo della poesia che apre il volume: “Così sono tornato a te mare/nel mattino d’abbacinanti riverberi e fragore/[di scavi […]”. Sarà più facile comprendere il significato assunto dal mare nel testo poetico di Cantarini se uniamo questi primi versi con gli ultimi due della stessa poesia: “Rivedo la madre/ e i miei piccoli piedi bagnati sulla ghiaia”. Qui il ritorno al mare si configura come un ritorno all’origine, al ricordo dell’infanzia e della madre, di ciò che c’era già da prima. Il mare o il suo flusso come segno del ritorno alla matrice primaria delle cose torna anche nella poesia “Madre”, dedicata alla madre malata: “ Ti capita ora di perderti nel tempo/nel flusso alternato di memoria/e sorridi bambina davanti a qualche prodigio/che per te si schiude lontano/poi torni serena dal lungo viaggio/e ritrovi le ore e le cose lasciate ad aspettarti/Spingo la carrozzella per lunghi corridoi/guardando il cammeo di bianchi capelli e pelle/[chiara/le mani che si sfiorano nervose/E’ un’onda che ti porta/foglia sei vicina al gorgo/al grande mare”.
La poesia di Cantarini è una domanda sempre aperta che respira dai versi e tra i versi. Questo respiro perciò viene indicato dal poeta nella pagina attraverso il non uso di punteggiatura o lasciando spazi allargati tra le parole, concedendo brevi pause di silenzio come a far meditare il lettore riportandolo in intimità con il testo poetico ad ogni parola: “[…] Dammi luce e silenzio/essere quest’albero immobile il cedro il pino/[l’abete/le radici alla terra avvinghiate ma nell’azzurro/[alta chioma”. Si noti da questi ultimi versi di pagina 25 (“Dammi Luce”), come la disposizione delle parole e le pause interne, aiutino a lasciare che il testo esponga il suo significato in maniera chiara, senza troppi giri di parole; inoltre, sembrano riprendere nell’immaginario evocato da Cantarini, i primi tre della poesia “Un’armonia mi suona nelle vene” di Alda Merini, che recita: “Un’armonia mi suona nelle vene,/allora simile a Dafne,/mi trasmuto in un albero alto”, ove ritorna il tema dell’immobilità in contrapposizione alla vicinanza al cielo indicata dall’altezza degli alberi. L’energia del nostro poeta parte dalla sua stessa capacità di uno sguardo sulle circostanze e sulle cose che accadono che sa lasciarsi sorprendere e ferire anche dai minimi dettagli.
Particolari minimi che spesso ci sembrano superflui o inutili, presenze che stanno lì ferme apparentemente senza motivo, diventano invece possibilità di stimolo per un nuovo inizio, per una ripartenza, una riscoperta, profondamente grati per qualcosa che è dato e rassicura dalla solitudine, che rimanda ad un’armonia innata e imprescindibile anche nel dolore, come a pagina 28, nella poesia “Amore”: “Il male c’è che indolora e toglie il sorriso/[e discolora/ma come quest’incendio mattutino di gerani/la carezza ritorna rondine fedele”. Lo spazio (proiettato oltre lo spazio stesso verso una dimensione sconfinata, come ad accentuarne il senso di mistero) è perciò caratterizzato dalla potenza evocatrice della natura e dei luoghi di tutti i giorni, permettendo, senza troppi sforzi, che rimandino ad Altro, ad un’armonia che unisce gli eventi, gli organismi, la terra con il cielo, che rischiara i significati, che solo “nell’azzurro”, nell’infinito, in una grandezza non contenibile da mani umane, solo in un ideale più alto trova possibilità di salvezza. E’ a questa “Grande presenza”, che sta dietro alle cose, che Cantarini si rivolge con un profondo senso religioso e con fiducia, poiché ne fa esperienza di persona, e a cui non chiede altro che alla sua mente ed al suo cuore sia concesso d’ essere pronti a lasciarsi commuovere ogni istante nel riconoscerla. Il tempo dei testi è il presente. Un presente carico ed esperto, a cui è necessario ritornare senza resa per andare a fondo del proprio percorso, delle proprie scelte e condizioni attuali, per non morire nel passato o nell’attesa del futuro. E’ un presente imperioso, che riporta sempre alla realtà dei fatti, che fa sì che il nostro poeta affermi in versi, come Oscar Milosz, che “tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il cielo sia lodato!) non è la nostra”. E’ un Presente che chiama a sé, ad essere partecipi, ad appartenere a ciò che è, e non a quello che sarebbe dovuto essere; lontano dalle utopie, che ritorna nella quotidianità dei fatti, che svela nell’uso della seconda persona singolare dei tempi verbali il bisogno imminente del cuore dell’uomo, un bisogno urgente di sentirsi salvi, smisuratamente amati, un forte bisogno di luce nel vuoto e nel buio delle proprie ferite: “Guardami occhi stellati come madre il figlio/[tanto atteso/ascolta paziente il singhiozzo dell’alba e del/[tramonto/Occhi di cielo bellezza che ferisce/vegliami quando mi ingoia latrando la notte/vuoto e buio è la vita senza la luce del tuo/[sguardo”. Anche il passato -anche nel ricordo-, come sopra suggerito, è del presente, in quanto è ciò che viene prima, in quanto continuamente riappare come un vento sottile, quasi attraverso un “Ponte” che ci ha permesso di arrivare fin qui, che è la nostra storia, che è parte di noi, come un padre che ritorna: “La foto più bella/tu che mi tieni in braccio sul ponte Tresa/il pastrano grigioverde il berretto militare/e mi sorridi/avevo un anno e tu nemmeno trenta/nulla sapevo di limiti e confini/se non che il tuo abbraccio/era ponte per andar ovunque”.
La poesia di Cantarini si presenta così, come il ritorno ad un’essenza primaria, alla meraviglia che il cammino dell’essere umano porta con sé nel bene e male, nella cecità e nello stupore. Il nostro poeta si fa perciò cantore e testimone della bellezza, di una “Grande bellezza” che egli stesso vive e scopre in prima persona tramite una genuinità sapiente che si interessa scrupolosamente di piccoli gesti, di piccoli segni – che sarebbero forse gli unici ad andar guardati-, che crede al mistero che li abita come al senso unificatore del vivere, a cui l’uomo partecipa già dalla propria nascita e a cui è concessa la libertà di appartenere o di sottrarsi. La bellezza, la “Grande bellezza” versificata da Cantarini (volendo riprendere quasi per gioco l’omonimo titolo del film di Sorrentino) non è perciò riducibile ad un trucco, ad un inganno eterno. La bellezza, quella che conta (quella esperita), è innanzi a tutto presenza che non si nasconde in codici o anagrammi da decifrare, è semplice, d’impatto, basta guardarla con la lealtà del proprio cuore e non è circoscritta alla perdita. Può essere fraintesa non andando a fondo del proprio desiderio, ignorata e distrutta, ma è ciò che tutti i giorni ci circonda, nelle sue tinte forti, opache e mutevolezze. E’ l’unica cosa che non muore perché sempre si rinnova; che quasi sempre ferisce. E’ la risposta tanto attesa e mai pronunciata ad alta voce. La bellezza è un fatto non deciso che avviene, non riducibile ad un’opinione. La bellezza è libertà di riconoscere, di riconoscersi. La bellezza non è definizione: è ciò che resta, terminate le parole.
Bruno Cantarini nasce a Bergamo nel 1953. Compie ad Ancona gli studi classici e si laurea a Roma in Lettere. Pubblicista, ha scritto numerosi articoli e recensioni su artisti e scrittori, collaborando a giornali e riviste. Ha curato varie mostre d’arte e di fotografia. Ha realizzato nel 1933 il libro d’arte a tiratura limitata Il giardino selvatico per la Provincia di Ancona. Ha pubblicato nel 2007 la raccolta di poesie Banchi diversi per Raffaelli Editore di Rimini e nel 2011 con la casa editrice Itaca di Castel Bolognese, Ritorni e partenze. Attualmente insegna italiano al Liceo Artistico “Mannucci” del capoluogo dorico, dove vive con la famiglia.
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