di Daniele Referza
« In te c’è più di quanto tu non sappia, figlio dell’Occidente cortese.
Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati.
Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni
al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto»
(Thorin Scudodiquercia)
Sono passati 10 anni dall’ultimo capitolo della trilogia de Il Signore degli Anelli – il Ritorno del Re – ed eccoci a fare i preparativi per il secondo capitolo della versione cinematografica del Lo Hobbit. Nel capitolo precedente, apparso nelle sale a dicembre dello scorso anno, Bilbo Baggins, un hobbit abitudinario e morigerato, abitante della Contea, viene coinvolto dallo stregone Gandalf in una inaspettata avventura. Nel bel mezzo di una tranquilla serata di primavera piombano in casa baggins ben tredici nani, convocati lì da Gandalf all’insaputa del diretto interessato. Dopo aver svuotato la dispensa dello hobbit, la compagnia informa Bilbo che dovrà partire con loro per salvare la loro terra dalla presenza del drago Smaug. Dopo vari ripensamenti, l’improvvisato “scassinatore” raggiungerà il gruppo guidato da Thorin Scudodiquercia, erede al trono di Erebor. Il film ci aveva mostrato vari momenti di questa marcia, segnata dallo scontro con i Troll, l’incontro col l’elfo Elrond, la battaglia con i Goblin ed il contemporaneo incontro di Bilbo con Gollum, il furto dell’Anello del Potere e la sfida agli indovinelli nell’oscurità. Il secondo capitolo di questa bella storia inizia subito dopo la fuga della compagnia sulle ali delle aquile che Gandalf aveva chiamato per salvarli dall’assolto dei Mannari. Ci troviamo di fronte alla grande foresta detta Bosco Atro ed il gruppo, per attraversarla, dovrà farsi accompagnare dal misterioso Beorn, uomo-orso. Da lì si troverà ad Erebor, città sotto la Montagna Solitaria, dove il drago imperversa di tanto in tanto per sfamare le sue oscure brame.
Potrebbe essere solo una storia, quella di Bilbo, una bella avventura per divagare; potremmo ridurla ad una saga o ad una opera di fantasia, oppure accoglierla come l’ennesimo racconto fantasy che l’industria cinematografica ci offre. Potremmo anche, alla luce di un romanzo scritto nel 1937 da Tolkien e da lì sempre più amato da varie generazioni, interrogarci sul senso che questa storia abbia in se stessa ed alla luce del nostro presente. Io opterò per questa seconda via. Tolkien scrisse le sue opere maggiori (Il Silmarillion, lo Hobbit, Il Signore degli Anelli) intrecciando fiabe e racconti popolari, inventando alfabeti per ciascun popolo del suo mondo in assoluta coerenza cronologica e morfologica e creando così il più complesso universo organico della narrativa occidentale. Professore di letteratura a Oxford, esperto del periodo medioevale, cattolico, egli vede con gli occhi propri di un autore del suo tempo i fatti della storia del mondo e li rilegge con uno sguardo teologico-poetico: le due Guerre Mondiali, la Guerra Fredda, l’irrompere del post-moderno. Di fronte a ciò una costante: la lotta del male contro la vita. Le precise coordinate del suo universo lo portano ad identificare il male nelle tensioni che vanno a distruggere le tradizioni dei popoli attraverso logiche di mercato e di industria selvaggia, oppure nel massacro di sanguinose guerre incentivate dal desiderio del potere. Anti-nazista e anti-stalinista, Tolkien sentiva il peso di richiamare il suo popolo britannico agli antichi valori della vita, magari ancora sepolti come brace nella coscienza collettiva; ma egli non era, bisogna dirlo, un sociologo. Non era neanche un politico. La sua poetica, come ben suggerisce la storica ed imperitura introduzione di Elémire Zolla a Il Signore degli Anelli, non aveva di mira il transeunte – come invece gli hanno rimproverato per anni i ben noti critici politicizzati – ma l’archetipo, il perenne, l’eterno gioco. Un anello della forza assoluta, la triade o trinità elfica che mantiene in equilibrio l’universo secondo spirito e forma, i sette (tre e quattro, la materia), nani in possesso di anelli e i nove, numero della redenzione dell’uomo, di dantesca memoria. In questa cosmogonia in cui i personaggi sono simboli in funzione del significato, la vittoria sul male è quella di San Michele o San Giorgio sul principe del male e le sue orde. Contro il moderno tema della compresenza di bene e male in ogni cosa, equilibrio manicheo di poteri avversi, egli vede con chiarezza la distruttività del male e la necessaria sua distruzione. Quale accordo può esserci con tale forza? Nessuno. Lo Stregone Saruman, il maggiore degli Istari, guida spirituale di Gandalf e dello schivo Radagast (che pure viene splendidamente reso nel film di Peter Jackson) il quale prova a venire a patti col malvagio Sauron, fa a tutti gli effetti una fine miserabile. Il male esiste ad è una forza ancestrale, estrema, originaria – ragione per cui è la trasposizione del peccato originale, la colpa del diabolico Melkor, il maggiore degli Ainur (i nostri angeli), che nell’atto della sinfonia della creazione decide di cambiare lo spartito ed inserire una nota stonata, la sua, producendo disordine e confusione in eterno. I suoi servi e servetti ripeteranno questo atto nella storia delle ere della Terra di Mezzo, desiderando il dominio e la forza suprema.
Andiamo a vedere Lo Hobbit, in definitiva, sapendo di ricevere una teologia: essa lascia poco spazio alle interpretazioni e ciò è un bene in questo tempo che ne è talmente pieno da creare imbarazzi sulla verità. Ci viene descritta la storia del mondo in un affresco simbolico ma estremamente coerente, fantastico ma per nulla irreale, logico e poetico al medesimo tempo; ci si parla di orchi e pensiamo a chi opera il male, di elfi e subito vediamo i santi, di hobbit e pensiamo a noi, poveri peccatori, chiamati da un testimone un po’ strambo a uscire dalle nostre case senza mai averne né voglia né consapevolezza per intraprendere una missione di bene e di salvezza per tutti e, soprattutto, per riprendere a vivere con la stessa spensieratezza leggera di un piccolo esserino nascosto nella tana della sua amata Contea.
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