di Francesco Scarabicchi
Ho riascoltato per l’ennesima volta Franco Corelli in Tosca di Puccini, Giacosa e Illica (più nessuno toccherà i vertici d’una sensualità struggente come lui in “Oh! dolci baci, o languide carezze,/mentr’io fremente/le belle forme disciogliea dai veli!”) e nell’Andrea Chénier di Giordano e Illica (“Come un bel dì di maggio/che con bacio di vento e carezza di raggio/si spegne il firmamento, /col bacio io d’una rima,/carezza di poesia, salgo l’estrema cima/de l’esistenza mia) ed ho pensato che, se il 13 agosto del ’76 Corelli aveva scelto di dare compimento al suo sentiero artistico (apertosi il 26 agosto 1951, a Spoleto, con la Carmen di Bizet nel ruolo di Don Josè; l’esordio alla Scala avverrà nel ’54 ne La Vestale di Spontini con la Callas) a Torre del Lago, ha poi affidato alla memoria delle registrazioni e delle incisioni il senso del suo percorso e degli anni che l’hanno visto sulle scene del mondo e del secolo, voce, figura e presenza dell’eroe romantico che attraversa il sogno, l’amore e la morte così come ogni immaginario di fiaba e di avventura vuole, bello, coraggioso, indomito, da Turandot ad Aida, da Il Trovatore al Don Carlo, da La Boheme alla Fanciulla del West, da La Gioconda a Norma a Carmen, da Poliuto a Gli Ugonotti.
Ma Corelli, oltre che finzione e teatro, è stato anche un inquieto protagonista del melodramma italiano, un inesausto e tenace interrogatore di quell’ineffabile vocazione all’assoluto che pretende sempre il “più”, l’ “oltre” cui tendere, l’altra soglia, la perfezione. Non si accontentava della stazione raggiunta, non erano il Metropolitan di New York o la Scala ad acquietare la voce che in lui chiedeva un ulteriore metro verso chissà che cosa. In questo, forse, era – per usare una scorciatoia – la radice che lo legava a quest’isola di scoglio, che lo rendeva concreto e niente affatto illuso, che lo segnava di limpidità, malinconia e cupezza (le stesse venature del suo canto che saliva al cristallo più terso per scendere fino a regioni baritonali e tenebrose) tenute da uno sguardo colmo d’innocenza arresa e di aristocratica solitudine. Corelli ha sicuramente donato, in silenzio, nei decenni del suo viaggio, un’anima che Ancona ha sempre intuito e puntualmente ignorato, città cui, fra le altre, è toccata una strana sorte: priva del suo teatro per oltre sessant’anni, ha dato alla vita del mondo (otto aprile del 1921) una delle identità più intense ed eccellenti della lirica. Penso non si dovesse attendere la riapertura delle Muse per manifestare la consapevolezza di aver avuto, nel destino della nostra storia, un cercatore della bellezza e della misura come lui, un incessante perlustratore di armonie e di forme, un infaticabile indagatore di quel mistero che ospita, più l’esito è alto, il dubbio e l’ansia. Si è troppo insistito, a volte, sulla sua presenza fisica, sul fascino e sul portamento che sicuramente hanno caratterizzato l’uomo e l’artista, ma mi chiedo: ascoltarlo, ora che si è spento per sempre, il 29 ottobre del 2003, a Milano, dove è sepolto, seguirlo nei labirinti delle partiture e degli accordi, non vuol dire “sentire”, da quella pronunzia inconfondibile, insieme il miracolo della voce e del corpo? Come diversamente è possibile immaginarsi, ad esempio, Radamès, Manrico, Cavaradossi, il Principe Ignoto, Andrea Cheniér, Don Alvaro, Turiddu, Don Carlo, se non nell’aria mossa dai suoi gesti, dai suoi passi, toccata dai suoi sguardi? Per questo la piazza del teatro, a ridosso della luce e del vento d’Adriatico, ad Ancona, è sua, comunque.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati