(In alto la galleria fotografica)
Primi giorni intensi per il nostro fotoreporter Guido Picchio che con il noto giornalista di Repubblica Adriano Sofri e la fotografa Neige De Benedetti, sotto la guida del capitano Marco Cervo, è in viaggio a Herat (leggi l’articolo). Picchio torna in Afghanistan dove era stato già nel 2008. Oggi Repubblica ha dedicato uno spazio in prima pagina al loro viaggio volto a documentare l’addio degli italiani che presto lasceranno le basi ai militari locali.
E’ il capiatno Cervo a raccontare, in una sorta di diario di bordo, le tappe del viaggio, documentato dagli scatti di Guido Picchio.
«I colori di Herat, sotto un cielo di un azzurro così intenso che mai avevamo visto, dopo due giorni di tute mimetiche sono una gioia per gli occhi. Dai vetri blindati scorre la vita di tutti i giorni in questa città che di questa terra è stata, nel 1400, anche capitale. Le bancarelle rosse di melograni, turbanti colorati, sciami di motorette, strani tre ruote e furgoncini stracarichi di gente. Qualcuno è seduto anche sul tetto e i nostri angeli custodi, i Fucilieri di marina del Reggimento San Marco, ci spiegano che sono i taxi di Herat.
Quando varchiamo il cancello della prigione l’atmosfera cambia. I colori sono intensi come fuori, il nostro umore no. Siamo venuti con il PRT (Provincial Recostruction Team) del contingente italiano che si occupa di captare le esigenze della popolazione, per poi progettare e finanziare piccole opere di pubblica utilità, con fondi della Difesa. A guidarlo è il Colonnello Vincenzo Grasso che ci spiega, con l’entusiasmo di chi nel proprio lavoro mette enorme passione, quanti piccoli interventi siano stati fatti nella provincia di Herat: scuole, strade, ambulatori, canali di smaltimento. Anche il carcere ha ricevuto il sostegno dell’Italia. Il PRT si è occupato di progettare un ampliamento della sezione femminile dove vivono circa 200 donne e, con loro, i loro bambini da zero a sei anni. Sono una sessantina ci circondano con i loro faccini innocenti, sporchi e sorridenti. Non ne sentiamo uno piangere. A farlo sono i nostri cuori e, per qualcuno, anche gli occhi che non riescono a trattenere la commozione.
Ancora molto ci sarebbe da fare, soprattutto per la sezione maschile, che ospita 3.500 (si, proprio 3.500) detenuti quando ne dovrebbe contenere al massimo 800. Sono ladri, spacciatori, assassini e sequestratori, reato quest’ultimo che ci spiegano molto diffuso. Sono uomini e vivono ammassati come bestie.
Il Direttore del penitenziario, un generale dell’Esercito Afgano da poco chiamato a sostituire il suo predecessore, ha un viso onesto e pulito. Assomiglia ad un Omar Sharif un tantinello sovrappeso. Si rende conto delle condizioni a dir poco inumane dei reclusi e certo non se ne sta con le mani in mano. Ci spiega come stia cercando una soluzione a questo scempio. Al momento aspetta l’autorizzazione governativa a vendere un terreno incolto di proprietà del carcere per poter con il ricavato costruire una nuova ala. Non sembra uno che chiacchieri al vento e la sua intenzione testimonia la volontà del popolo afgano a cercare di risollevarsi a prescindere dagli aiuti della Comunità Internazionale.
Proseguiamo il nostro giro e veniamo ricevuti da Mawlawi Khodadad che qui ad Herat è una delle massime Autorità Religiose. Il PRT è intervenuto per costruire una biblioteca per la sua scuola. Il progetto è pronto e, appena esperita l’asta per l’affidamento dei lavori ad una delle ditte locali, si potrà iniziare. Dopo un breve colloquio ci invita a pranzo nella sua casa, un onore che non si può rifiutare. Mangiamo da una tavola che profuma di zenzero e spezie. Riso, verdura, minestra di pollo, montone ed un dolce di panna cosparso di pistacchi che ci ricorda come la cucina araba abbia influenzato quella del nostro Sud.
Nel percorso che ci porterà alla nostra ultima visita di oggi passiamo davanti agli antichi minareti. Ora sembrano vecchie ciminiere ma la loro maestosità, le ultime maioliche che ancora brillano al sole sono lì a ricordarci l’antico splendore di quella che è stata sede dell’Impero. Pare volerlo rimarcare anche un’aquila che, dopo aver volteggiato sopra le nostre teste, proprio all’interno di uno dei minareti va a rifugiarsi.
Prima di rientrare a Camp Arena la nostra ultima visita di oggi: l’orfanatrofio femminile. Altro groppo che ci rimane in gola».
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