di Giuseppe Bommarito*
Due adulti, un uomo e una donna, in overdose contemporaneamente, per una dose troppo pura o tagliata con chissà quali schifezze, a Porto Recanati, in pieno giorno, nei pressi della pineta che costeggia gli stabilimenti balneari (leggi l’articolo). Una vicenda drammatica, destinata però ad essere probabilmente ignorata dai più (come tante altre analoghe che avvengono nella nostra provincia con cadenza quasi quotidiana e che, a volte, nemmeno arrivano a scuotere la sovrana, sostanziale, indifferenza delle istituzioni, dei giornali, dell’opinione pubblica), se in questa occasione non ci fosse stato il coinvolgimento di due bambini di tenera età, figli della ragazza rinvenuta esanime nel bagno di uno chalet, a poca distanza dall’autovettura dove invece aveva perso i sensi il suo compagno, anche lui in overdose.
E proprio la presenza dei due minori nel teatro del dramma e il ruolo attivo (e probabilmente decisivo per salvare la vita ai due adulti) di uno di loro nel richiamare l’attenzione di alcuni passanti sono stati gli elementi di grande clamore di questa brutta, bruttissima, storia, arrivata persino, nelle ore di punta, sui grandi telegiornali delle reti pubbliche e private (il TG1 e il TG5).
Sulla spiaggia di Porto Recanati, in una tranquilla giornata di sole, quei due bambini sono quindi diventati gli involontari eroici protagonisti dell’ennesima tragedia sfiorata, anche se per loro, al posto della bella giornata di mare che si era profilata, quella mattina si sono invece concretizzate ore di terrore, di ansia, di dolore, di sbalordimento, di incapacità a comprendere quanto stava avvenendo. Cosa avranno pensato quei poveri angeli nel vedere la mamma e il suo compagno privi di sensi, la gente che urlava, le ambulanze, i carabinieri, i medici, gli infermieri subito accorsi?
Tanti gli spunti che si possono ricavare da queste ennesime overdosi, che si innestano in una drammatica serie di vicende analoghe che negli ultimi mesi vedono Porto Recanati praticamente al centro di un vero e proprio assedio della droga. C’è il profilo della sicurezza pubblica, con le forze dell’ordine che, nonostante gli sforzi encomiabili e le tante operazioni antidroga, ancora non riescono a spezzare, o quanto meno ad indebolire in maniera significativa, le numerose reti di traffico e di spaccio che operano sulla costa maceratese. C’è il discorso della prevenzione, dell’informazione, della sensibilizzazione, della presa di coscienza circa la gravità del fenomeno, che a livello cittadino, nell’istituzione comunale, nelle scuole e nelle famiglie di Porto Recanati, stenta a decollare, nonostante tutte le evidenze. E poi, non meno importante, c’è la riflessione sulle conseguenze sanitarie dell’uso e dell’abuso della droga, e in particolare dell’eroina, ed è proprio di queste conseguenze che intendo qui parlare.
Ciò che infatti sfugge a molti è che la tossicodipendenza, che si instaura quasi inevitabilmente dopo un certo periodo di uso ripetuto di sostanze stupefacenti (l’eroina e la cocaina sono particolarmente micidiali in questo senso), è una malattia, una gravissima malattia, una malattia che tende a recidivare e a divenire cronica, una malattia che spinge sempre di più ad aumentare le dosi e la frequenza delle assunzioni, una malattia che può uccidere, una malattia che annulla sempre di più, con il suo inesorabile progredire, non tanto la capacità di intendere, quanto la capacità di volere.
Essere dipendenti significa essere “schiavi” della sostanza, dell’eroina, è lei che comanda, è lei che scatena quelle terribili crisi di astinenza durante le quali chi ci passa non capisce più niente. Anzi, capisce una sola cosa: deve a tutti i costi trovare l’eroina, deve trovare i soldi e lo spacciatore per acquistarla, deve nel più breve tempo possibile iniettarsela in vena. Tutto il resto in quei terribili momenti non conta, nemmeno dei bambini innocenti che ti stanno lì accanto, dei figli ai quali una madre, sia pure tossicodipendente, non può non volere tutto il bene del mondo.
La tossicodipendenza è una malattia, quindi, come stabilito da decenni dalla scienza medica, e questo dato oggettivo non può essere cancellato dalla circostanza che essa è autoindotta. Eppure il fatto che la droga non piova dal cielo, ma venga liberamente assunta, quanto meno all’inizio del viaggio nel terribile mondo delle sostanze stupefacenti, ha quasi sempre portato nell’immaginario collettivo a considerare i “drogati” come dei viziosi, come degli sciagurati creati da una società marcia, e non come dei malati che hanno un grande bisogno di aiuto. Un aiuto indispensabile, peraltro, perché nel 99,99% dei casi non si riesce a venir fuori da soli dalla dipendenza da eroina (e da cocaina), nemmeno quando accanto alla persona tossicodipendente c’è la sua famiglia che vorrebbe fare di tutto per farla uscire da questa tragedia immane (e ciò non sempre accade).
Una malattia molto grave, da cui è però possibile guarire. E a questo punto si innesta tutto l’altro discorso delle strutture pubbliche e private di cura e terapia per uscire dalla tossicodipendenza. Anche qui, nonostante gli sforzi e la professionalità di tanti operatori, pubblici e privati, problemi enormi, sui quali le istituzioni e le autorità sanitarie, a partire dalla Regione Marche e dall’ASUR, dovranno prima o poi mettere le mani per davvero.
Ci sono, sparsi nel territorio regionale, i Sert, che fanno parte dei Dipartimenti delle Dipendenze Patologiche, strutture pubbliche riconducibili all’ASUR, l’Azienda Sanitaria Unica Regionale. Il personale però è scarso, a tutti i livelli (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali), la terapia spesso e volentieri è incentrata solo sul metadone, dopo qualche mese dall’inizio del trattamento in molti casi non c’è più chiarezza e distinzione consapevole tra trattamenti a scalare di metadone e trattamenti di mantenimento (che a volte durano anche decenni), i ragazzi e le loro famiglie non sempre sono aiutati a comprendere qual’è la differenza tra una semplice disintossicazione fisica (che in genere non risolve nulla, e spesso porta a ricadute, con esiti possibili di overdosi anche mortali) e la ben più importante e risolutiva disintossicazione psicologica, i fondi sono insufficienti e così l’invio in comunità terapeutica, spesso e volentieri indispensabile, è circoscritto a poche situazioni, e in alcuni casi non è nemmeno prospettato.
Poi ci sono le Comunità Terapeutiche, strutture generalmente riconducibili al privato sociale, che accolgono quei fortunati che riescono ad accedervi tramite i Sert, superando le difficoltà burocratiche e le drammatiche carenze di fondi delle strutture pubbliche per pagare le rette giornaliere. Anche qui non sono rose e fiori, perché manca un reale controllo regionale sulle strutture ricettive, sull’idoneità professionale del personale, sulle terapie adottate, sulla durata delle stesse, sui risultati conseguiti. Nel campo delle Comunità Terapeutiche, diciamo la verità, c’è di tutto: ci sono quelle dove, con grande carica di umanità e di passione sociale e civile, si fronteggia seriamente la tossicodipendenza, si lavora sulla fortificazione dei ragazzi ricoverati, si ricostruisce la loro personalità e la loro autostima, il sistema delle regole, delle gerarchie, dei doveri, della responsabilità individuale. Ma purtroppo ci sono anche le Comunità che sembrano quasi cliniche private, dove il tossicodipendente, il malato, viene visto come un business (anche se chi paga, in questo caso, non è il privato cittadino danaroso, ma l’ente pubblico: la Regione), come una gallina dalle uova d’oro, dove si lucra e si risparmia su tutto, dove, a parte il lavoro praticato (giustamente) come terapia, non c’è nessun altro tipo di trattamento, dove stranamente le terapie tendono quasi sempre ad allungarsi per garantire periodi più lunghi di pagamento delle rette giornaliere, dove i trattamenti blandamente praticati non sono, e non possono essere, comunque risolutivi.
Insomma, c’è tanta strada da fare per dare vera dignità di malattia alla tossicodipendenza, per curare veramente (e non fare solo finta di curare), per dare ai ragazzi tossicodipendenti serie prospettive di guarigione e di piena riabilitazione sociale (e non semplici illusioni), per costruire sinergie reali ed efficaci tra i Sert e le Comunità Terapeutiche. Ma c’è qualcuno che, a livello locale e regionale, questa battaglia la vuole combattere realmente, che vuole raccogliere il grido di dolore di migliaia di ragazzi e di familiari che vivono nell’angoscia più cupa? C’è qualcuno, tra i nostri esponenti regionali, tra le forze di maggioranza e di opposizione, che vuole sinceramente sporcarsi le mani in questa battaglia?
* Avvocato e Presidente dell’Associazione onlus “Con Nicola, oltre il deserto di indifferenza”
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Grazie avvocato del suo incessante lavoro; come genitore auspico la presa di coscienza dei numerosi genitori inconsapevoli… come cittadina voglio poter pensare che chi di dovere cominci a lavorare sul problema, “a sporcarsi le mani” come lei afferma. La droga è una piaga che, nel momento in cui ti ammalia, infetta, avvelena, contagia fino a deformarsi perché diventa malattia cronica. Ogni tanto si legge qualche insignificante articoletto di cattura di piccoli venditori di morte o scoperta di minime quantità di “roba”, così i cittadini si tranquillizzano e pensano di essere protetti dall’onesto e incessante lavoro delle forze dell’ordine! Da una parte credo al numero insufficiente di quelli che operano nel campo, ma accanto ad essi ci sono molti altri che sanno, condividono, ammiccano e passano oltre…