Si è tenuto oggi al Teatro Lauro Rossi il Convegno internazionale «Scienza Ragione Fede. Il genio di Padre Matteo Ricci»
I lavori si sono aperti con i Saluti del prof. Roberto Sani, Rettore dell’Università di Macerata, dimonsignor Claudio Giuliodori, Vescovo di Macerata – Tolentino – Recanati – Cingoli – Treia, di Padre Gianfranco Ghirlanda, Rettore della Pontificia Università Gregoriana, e di don Mario Florio, Preside dell’Istituto Teologico Marchigiano.
Quindi è intervenuto il Cardinal Camillo Ruini (nelle foto di Guido Picchio), Presidente del Comitato per il Progetto Culturale della CEI.
Riportiamo l’intervento integrale del Cardinale Ruini, diviso in paragrafi:
“Parlare di ragione, cultura e fede in un Convegno dedicato a Matteo Ricci, nella città che gli ha dato i natali e nel IV Centenario della sua morte, da una parte rimanda all’opera straordinaria da lui compiuta, nella quale le tre parole “ragione”, “fede”, “cultura” hanno trovato una sintesi straordinariamente lungimirante, coraggiosa ed efficace, in vista dell’incontro tra il Vangelo di Cristo e il mondo della Cina del suo tempo. Dall’altra parte stimola a ripensare questi tre termini nel contesto di oggi e del futuro che si apre davanti a noi, un contesto sempre più globale e mondiale nel quale il cristianesimo è chiamato a vivere con slancio nuovo e creativo la sua universale missione di salvezza. E’ su questo secondo versante che insisterò maggiormente, anche per i limiti delle mie conoscenze, purtroppo non adeguate ad approfondire la persona e l’opera di Matteo Ricci.
1. A proposito del concetto di cultura
Fra le tre parole ragione, cultura e fede, cultura – nel titolo che mi è stato affidato – è collocata giustamente in posizione intermedia, poiché in essa la ragione e la fede convergono, si confrontano, si arricchiscono e anche si criticano a vicenda. Ma cultura è inoltre parola dai significati molteplici, difficile, per non dire impossibile, da cogliere e da definire in maniera adeguata ed esauriente; capace, invece, di suscitare interrogativi sempre nuovi, di evolversi e di riconfigurarsi secondo il variare dei contesti umani e storici nei quali essa viene declinata.
Occupandomi da ormai 16 anni del Progetto culturale della Chiesa italiana, ho avuto molte occasioni di riflettere su questa parola. Ho trovato precisazioni particolarmente illuminanti in una relazione su “Fede, religione e cultura” dell’allora Cardinale Ratzinger che risale al 1992 ma è stata pubblicata in italiano – e da me letta – nel 2003, nel libro del medesimo Cardinale Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, ed. Cantagalli, pp. 57-82. “Cultura” vi è definita sinteticamente come “la forma di espressione comunitaria, sviluppatasi storicamente, delle conoscenze e dei giudizi che caratterizzano la vita di una comunità”. La cultura, pertanto, ha anzitutto a che fare con la conoscenza e i valori: è un tentativo di comprendere il mondo e l’esistenza dell’uomo; non però un tentativo puramente teoretico, bensì guidato dagli interessi fondamentali della nostra esistenza. Il comprendere dovrebbe indicarci, cioè, come si fa ad essere uomini, ad inserirsi in modo giusto in questo mondo e ad essere felici. Questa questione, a sua volta, nelle grandi culture non è intesa in senso individualistico, come se ciascuno potesse escogitare per sé un modello per padroneggiare il mondo e la vita: al contrario, ciascuno lo può fare soltanto con gli altri. Perciò la questione della conoscenza adeguata è anche la questione della forma adeguata della comunità, mentre la comunità è il presupposto indispensabile perché la vita dei singoli possa realizzarsi. La cultura, pertanto, è sempre legata a un soggetto comunitario, che accoglie in sé le esperienze dei singoli e, a sua volta, dà loro un’impronta, conserva e sviluppa conoscenze che vanno oltre le possibilità dei singoli, si esprime in una tradizione vivente. Nella cultura abbiamo dunque a che fare con una conoscenza che si apre alla prassi, una conoscenza a cui appartiene necessariamente la dimensione dei valori, della moralità, del noi e non solo dell’io.
In secondo luogo, soltanto l’Europa moderna ha sviluppato un concetto di cultura che concepisce la cultura stessa come diversa, o anche come contrapposta alla religione. In tutte le culture storiche a noi note la religione è invece elemento essenziale della cultura; anzi, è il suo centro determinante, è ciò che conferisce la compagine dei valori e quindi l’ordine interno di una cultura. Cultura, in senso classico, include dunque il superamento del visibile e dell’apparenza, per volgersi ai fondamenti: nel suo nocciolo, è apertura al divino. Come ha detto Giovanni Paolo II al Convegno della Chiesa italiana a Palermo, il 23 novembre 1995, “il nucleo generatore di ogni autentica cultura è costituito dal suo approccio al mistero di Dio”.
La crisi di un soggetto culturale – che propriamente è sempre un soggetto comunitario – insorge quando non gli riesce più di collegare in modo convincente il suo patrimonio di conoscenze, valori, tradizioni, comportamenti con nuove conoscenze critiche che ormai si impongono come non ricusabili. Diventa dubbio, allora, il carattere di verità del patrimonio precedente, che si trasforma da verità condivisa in mera consuetudine e perde così la sua forza vitale.
In ogni caso la cultura, radicandosi in una comunità che vive nel tempo, ha a che fare con la storia. Si sviluppa quindi attraverso l’incontro con nuove realtà e l’assimilazione di nuove conoscenze, non rimane chiusa in se stessa ma è coinvolta nel fluire del tempo, dove diverse realtà e correnti confluiscono e tendono a unificarsi, oppure a ramificarsi e dividersi. La storicità delle culture significa dunque la loro attitudine a procedere oltre, ad aprirsi e ad accogliere le trasformazioni mediante il reciproco incontro.
2. Inculturazione-cultura della fede-incontro tra le culture
E’ questa, penso, la cornice concettuale entro la quale meglio si comprende l’impresa concepita e realizzata da Matteo Ricci e dagli altri gesuiti in quel periodo storico per tentare l’evangelizzazione di una realtà sociale, statuale e culturale profondamente autosufficiente, come la Cina interpretava se stessa e viveva concretamente.
Matteo Ricci è giustamente ritenuto un genio dell’inculturazione del cristianesimo – e in concreto del cattolicesimo – in un paese e in una civiltà estremamente diversi da quelli nei quali il cattolicesimo aveva allora il suo baricentro, e più ampiamente da quelli in precedenza penetrati dal cristianesimo. Benedetto XVI, nel Messaggio del 6 maggio 2009 alla diocesi di Macerata per le celebrazioni ricciane, ha scritto al riguardo parole assai impegnative: “Nonostante le difficoltà e le incomprensioni che incontrò, Padre Ricci volle mantenersi fedele, sino alla morte, a questo stile di evangelizzazione, attuando, si potrebbe dire, una metodologia scientifica e una strategia pastorale basate, da una parte, sul rispetto delle sane usanze del luogo che i neofiti cinesi non dovevano abbandonare quando abbracciavano la fede cristiana, e, dall’altra, sulla consapevolezza che la Rivelazione poteva ancor più valorizzarle e completarle. E fu proprio a partire da queste convinzioni che egli, come già avevano fatto i Padri della Chiesa nell’incontro del Vangelo con la cultura greco-romana, impostò il suo lungimirante lavoro di inculturazione del Cristianesimo in Cina, ricercando un’intesa costante con i dotti di quel Paese”. Si può aggiungere che la “strategia dell’inculturazione” adottata da Matteo Ricci risentì certamente delle condizioni imposte dall’autosufficienza del mondo cinese e dalla sua diffidenza nei confronti degli stranieri. Il genio di Ricci seppe accogliere quelle condizioni e volgerle al servizio della missione. In seguito tornerò più concretamente su queste problematiche.
Prima però di esaminare questi elementi, vorrei approfondire l’idea stessa di inculturazione della fede. Lo faccio a partire dall’insegnamento dell’Enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II che, nel n.72, in riferimento all’annuncio del Vangelo nelle terre d’Oriente (in particolare l’India, ma poi si accenna anche a Cina e Giappone), ricche di tradizioni religiose e filosofiche molto antiche, individua per i cristiani il compito di estrarre da quel ricco patrimonio “gli elementi compatibili con la loro fede così che ne derivi un arricchimento del pensiero cristiano”. Poi vengono indicati alcuni criteri per una tale opera di discernimento: “Il primo è quello dell’universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si ritrovano identiche nelle culture più diverse”. Il secondo, che deriva dal primo, richiede che la Chiesa, quando entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non si lasci alle spalle “ciò che ha acquistato dall’inculturazione nel pensiero greco-latino”: questo criterio di non perdere ciò che si è acquisito vale per ogni epoca, anche in rapporto alle acquisizioni ottenute oggi, attraverso nuove inculturazioni. Il terzo criterio consiste nel non confondere la legittima rivendicazione della specificità e originalità di un pensiero (nel caso, quello indiano) con “l’idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi nella sua differenza ed affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni, ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano”.
L’allora Cardinale Ratzinger, nell’intervento che ho già citato, approfondisce questa problematica. Anche per lui, come per la Fides et ratio, l’incontro delle culture è possibile perché l’uomo, nonostante tutte le differenze della sua storia e delle sue creazioni comunitarie, è un identico e unico essere che, nella profondità della sua esistenza, “viene intercettato dalla verità stessa”: solo questo rapporto con la verità spiega la fondamentale apertura di tutti e di ciascuno verso l’altro e le essenziali convergenze che esistono tra le culture più remote. Le diversità, invece, che possono portare alla chiusura reciproca, derivano anzitutto dalla finitezza dello spirito umano, per cui nessuno da solo abbraccia la totalità, per raggiungere la quale tutti hanno bisogno di tutti: solo nella reciprocità di tutte le grandi creazioni culturali l’uomo si avvicina all’unità e alla totalità del suo essere. In concreto, però, l’apertura reciproca e la potenziale universalità delle culture si trovano davanti a ostacoli pressoché insormontabili, quando devono passare a una universalità di fatto: non vi è solo la dinamica di ciò che accomuna, ma anche la forza di quanto divide, la contraddizione che esclude. Alla radice sta quell’alienazione che impedisce le conoscenze, tagliando fuori, almeno parzialmente, gli uomini dalla verità e quindi dall’incontro reciproco.
La grande pretesa con cui la fede cristiana è entrata nel mondo è che la verità, quella verità che è Dio stesso, ci fa dono di sé e così ci tira fuori dalle alienazioni, da quello che ci separa gli uni dagli altri: subentra infatti un criterio comune che non fa violenza ad alcuna cultura, ma porta ciascuna alle radici di se stessa, perché ognuna, in ultima istanza, è attesa della verità. Ciò non significa uniformità, ma complementarietà, perché tutte le culture, proprio in quanto ricondotte alla loro sorgente e al loro comune criterio regolativo, possono esplicare la loro specifica fecondità.
A questo punto dobbiamo approfondire il rapporto tra fede e cultura, riconoscendo anzitutto che la fede stessa è cultura. La fede, cioè, non esiste nuda: già per il fatto che dice all’uomo chi egli sia e come debba realizzare il suo essere uomo, la fede crea cultura, è cultura essa stessa. In concreto, ciò che la fede dice non è astratto, è maturato in una lunga storia, all’interno di molteplici fusioni tra culture, e così ha plasmato la forma della nostra vita, il modo di trattare noi stessi e il prossimo, il mondo e Dio. Ciò implica che la fede dia vita a un soggetto culturale e storico, a una comunità di vita e di cultura che chiamiamo “popolo di Dio”: la Chiesa. Chi appartiene alla Chiesa dovrebbe essere consapevole di far parte di un tale soggetto, che ha suoi propri criteri per comprendere le varie realtà e orientarsi nella vita, ha cioè un proprio giudizio di fede alla luce del quale deve camminare nel mondo.
La fede è però un soggetto culturale diverso dagli altri, cioè da quei soggetti culturali che sono le varie comunità etniche, nazionali, linguistiche; non è semplicemente uno di essi che si aggiunge agli altri. Il soggetto “popolo di Dio” sussiste infatti all’interno di ciascuna di quelle diverse comunità o soggetti culturali, che non smettono di essere, per i singoli cristiani, il soggetto primo e diretto della loro cultura. In parole semplici, ciascun cristiano rimane, a pieno titolo, italiano, cinese o nord-americano, per quanto riguarda la sua cultura di appartenenza. Pertanto il cristiano vive in due soggetti culturali che si incontrano e si compenetrano in lui: il suo soggetto storico e quello nuovo della fede. Non si tratterà mai di una sintesi totalmente compiuta: essa richiede piuttosto un permanente lavoro di riconciliazione e di purificazione, un continuo passaggio dal particolare del proprio soggetto storico all’universale del popolo di Dio; ma anche, reciprocamente, il passaggio inverso, per far vivere l’universale nel particolare e inserirlo così nel concreto della storia e delle sue molteplici asperità.
Certo, la storia d’Israele incomincia con la chiamata di Abramo: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre” (Gn 12,1). Incomincia dunque con una frattura culturale. All’inizio di un’ora nuova nella storia della fede c’è sempre una frattura simile con la propria storia precedente, un distacco del genere. Questo nuovo inizio, però, dimostra poi di essere una forza di risanamento, crea un nuovo centro di attrazione in grado di attirare a sé tutto ciò che è veramente conforme sia all’uomo sia a Dio: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Questa parola di Gesù riguarda anche ciò di cui stiamo parlando: la croce è dapprima frattura, rigetto, ma proprio così diventa il nuovo punto di gravitazione – che attira verso l’alto – della storia del mondo, diventa raccolta di ciò che era disperso. Analogamente, la frattura della precedente identità culturale dei popoli e poi il loro risorgere, anche culturale, da tale frattura nel popolo di Dio, la tensione di molti soggetti verso e dentro un unico soggetto, appartengono al dramma, mai concluso nella storia, dell’incarnazione del Figlio di Dio. E’ questa la più profonda dinamica della storia, che sta sempre sotto il segno della croce, in vista di giungere alla pienezza di Cristo.
Sulla base di questa approfondita analisi teologica, il Cardinale Ratzinger sottolineava i limiti del termine “inculturazione”, sotto il quale si nasconde spesso l’equivoco di presupporre che una fede culturalmente spoglia possa essere trasposta senza tensioni nelle più diverse culture, tutte religiosamente indifferenti. Al contrario, come si è visto, le religioni sono elemento essenziale e determinante delle varie culture. Per di più, se religione e cultura fossero davvero due realtà di per sé estranee l’una all’altra, l’inserimento vitale di una religione – in concreto della fede cristiana – nelle culture sarebbe impossibile e quindi la stessa inculturazione della fede sarebbe un concetto contraddittorio.
Il Cardinale Ratzinger proponeva pertanto di parlare, piuttosto che di inculturazione, di incontro delle culture – o di “interculturalità” –, nel senso dell’apertura reciproca delle varie culture storiche e, nella maniera diversa che abbiamo descritto, del rapporto rinnovatore tra le diverse culture e la fede cristiana, fede non denudata del patrimonio culturale acquisito attraverso la storia, ma sussistente in quello speciale soggetto culturale che è il popolo di Dio. Nel suo celebre discorso all’Università di Regensburg del 12 settembre 2006 Benedetto XVI, muovendosi esattamente in questa prospettiva, ha mostrato con grande forza che “l’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso”, bensì una “necessità intrinseca”, frutto ed espressione del legame profondo che unisce fede e ragione (cfr Fides et ratio, n.16).
3. Elementi per un’interpretazione teologica dell’opera di Matteo Ricci
Ritorniamo ora a Matteo Ricci e al suo mirabile lavoro di incarnazione della fede cristiana in Cina e nella cultura cinese. Molto peso viene attribuito, giustamente, alle parole da lui scelte per esprimere in quel linguaggio così diverso i concetti portanti della nostra fede, a cominciare dalla parola “Dio”, che egli ha reso con “Tian zhu” – Signore del Cielo –, o anche con “Shang” – Sovrano dall’Alto –: una scelta coraggiosa, anche perché esposta “ad un’ampia gamma di fraintendimenti”, come osserva Alessandra Chiricosta nella sua approfondita introduzione all’edizione italiana dell’opera di Ricci Il vero significato del “Signore del Cielo” pubblicata dalla Urbaniana University press (p.39). Leggendo però i primi due capitoli di tale opera, si può constatare che Matteo Ricci spiega con chiarezza il concetto cristiano dell’unico Dio, così come era formulato e argomentato nella teologia scolastica del suo tempo, superando in tal modo il rischio di fraintendimenti o interpretazioni riduttive e fuorvianti. Inoltre, nel n.28 di questo suo scritto, Ricci aggiunge, ad evitare ogni equivoco: “Ora questo Qualcuno non è altri che il Signore del Cielo, che le nostre nazioni occidentali chiamano Deus”.
E’ anche molto interessante che egli, nel n.26, precisi espressamente che, nell’esporre i principi degli insegnamenti del Signore del Cielo, la sua “spiegazione sarà basata sulla sola razionalità”. Ciò sebbene egli faccia menzione, già a partire dal n.21, degli “scritti canonici” in cui questa dottrina è contenuta “in modo tale da non lasciar adito a dubbi”. Questa scelta di basarsi sulla sola razionalità, oltre alle ben note e giustamente sottolineate motivazioni legate all’ambiente culturale in cui Matteo Ricci intendeva penetrare, mi sembra non sia senza rapporti con la teologia nella quale egli si era formato, una teologia che tendeva ad “indurire” la puntuale distinzione di S. Tommaso tra ragione e fede. In particolare riguardo alla conoscenza di Dio, la via della ragione viene concepita come del tutto evidente e apodittica, ciò che poteva corrispondere al clima culturale di allora ma nel nostro tempo sarebbe difficilmente sostenibile. Perciò oggi, senza rinunciare all’argomentazione razionale nell’approccio a Dio, è sottolineata anche l’importanza delle nostre disposizioni morali e scelte esistenziali, quindi il ruolo della nostra libertà. Così la via della ragione e quella della fede, pur rimanendo ben distinte, risultano meno dissimili e più vicine l’una all’altra.
La decisione di procedere basandosi soltanto sulla razionalità offre a Ricci una giustificazione teologica per la scelta, dettata anch’essa anzitutto dalle sue finalità di “strategia” missionaria e culturale, di ridurre al minimo il riferimento esplicito a Gesù Cristo. Soltanto nell’ultimo capitolo di Il vero significato del “Signore del Cielo” si trova infatti una breve “spiegazione” della ragione per la quale il Signore del Cielo è nato in Occidente (nn.574, 580-590), senza però far menzione delle tre Persone della Trinità e dell’incarnazione specificamente del Figlio e senza accennare in alcun modo alla sua croce e alla sua morte. Specialmente qui appare con grande chiarezza che l’intenzione e il metodo missionari di Matteo Ricci erano contrassegnati dalla gradualità, ossia da una sorta di “pedagogia”, che in qualche modo poteva richiamarsi alla “pedagogia” che presiede allo sviluppo della rivelazione attraverso l’Antico e il Nuovo Testamento. Non è pensabile, infatti, che un missionario innamorato di Cristo e convinto che solo in lui, nella sua passione, morte e risurrezione, si è aperta la strada per la salvezza dell’umanità, potesse concepire il silenzio sulla Trinità e sulla croce se non come provvisorio. Fin dall’inizio, del resto, Matteo Ricci ha insegnato le verità della fede cristiana attraverso sussidi e catechismi in lingua cinese redatti per i catecumeni e i battezzati.
4. Fede e cultura nell’epoca della globalizzazione e della razionalità scientifico-tecnica
Matteo Ricci si è ampiamente servito delle sue conoscenze scientifiche e tecnologiche – ancora “pre-galileiane” ma già permeate da un nuovo spirito – per accreditarsi culturalmente nell’universo culturale cinese. Oggi le scienze e le tecnologie sono diventate il più potente fattore di globalizzazione e di unificazione del mondo e le loro conquiste vengono trasmesse in tempo reale dall’una all’altra parte della terra. E’ profondamente cambiato, però, il modo stesso di concepire la ragione e la razionalità: alla verità come adeguamento alla realtà, nel quale tutti devono ritrovarsi, è largamente subentrata l’idea di una verità soltanto “operativa”, intesa come ciò che è possibile fare e realizzare, in particolare attraverso la razionalità scientifica e tecnologica. Vi è poco spazio, invece, per una verità oggettiva in tutti quei campi che la razionalità scientifico-tecnologica – per i suoi intrinseci limiti metodologici – lascia scoperti: tra questi in particolare i grandi interrogativi sul senso e la direzione della nostra vita e dell’intera realtà. In queste materie ciò che sembra importante sono piuttosto le preferenze personali dei singoli e, quando si tratta di decisioni comuni e vincolanti, l’opinione della maggioranza. Questo relativismo, che oggi cerca di penetrare anche dentro la fede e la teologia, è forse il problema più grande della nostra epoca.
Nello studio delle culture e delle religioni l’attuale relativismo si esprime nei procedimenti rigorosamente a-valutativi, che interdicono di istituire confronti di valore tra le diverse culture e religioni e si limitano a descrivere e inquadrare concettualmente le loro parentele, analogie e differenze. In questa prospettiva ogni rivendicazione di verità e di valenza salvifica del cristianesimo diventa improponibile e quindi la missione cristiana perde la sua intrinseca giustificazione e ragion d’essere: semmai dovrebbe limitarsi a un aiuto umanitario, senza la finalità di convertire al cristianesimo. Siamo lontanissimi dall’approccio di Matteo Ricci che, nella sua opera culturale-missionaria, faceva leva proprio sulla verità e capacità salvifica di ciò che andava proponendo.
E’ bene, però, esaminare più da vicino i rapporti delle culture e delle religioni con la razionalità scientifica e tecnologica. Quest’ultima non è affatto neutrale o irrilevante in materia religiosa e morale, anche se – in molti suoi cultori – crede di esserlo. Fa cambiare infatti i criteri e i modi di comportamento e modifica in profondità l’interpretazione del mondo. Sotto la sua spinta, pertanto, l’universo religioso entra inevitabilmente in movimento: il rapido affermarsi di questa razionalità scuote il paesaggio spirituale fin dalle fondamenta, obbligando a ripensare il proprio credo e il proprio ethos, nel nuovo contesto razionale e operativo da essa disegnato. La razionalità scientifica e tecnologica non è però in grado di dar vita da sola a un’autentica forma di cultura, o di costituirne l’anima e la spina dorsale, proprio perché non contiene e non può fornire le conoscenze e i valori che costituiscono la base del nostro vivere insieme.
In questo mondo in grande movimento, nel quale da una parte le religioni e le culture non possono semplicemente restare quello che erano, e dall’altra parte la razionalità scientifica e tecnologica non è in grado di surrogarle, sembrano aprirsi per la fede cristiana nuove e straordinarie possibilità. Il cristianesimo infatti, come religione del Logos, per sua natura è legato alla razionalità e quindi è intimamente predisposto ad accogliere, in tutto il suo contenuto positivo, la razionalità scientifica e tecnologica, che non per caso è nata in un’area culturale impregnata di cristianesimo. Ma il cristianesimo tende anche a liberare questa stessa razionalità da ogni presunzione di autosufficienza, aiutandola invece ad inserirsi in quella razionalità più vasta che ha come suo riferimento l’essere, la realtà dell’uomo e del mondo e, in un modo superiore e diverso, la realtà originaria di Dio. Proprio a questo richiama Benedetto XVI quando invita ad allargare gli spazi della razionalità.
Oltre che del Logos, il cristianesimo è – inseparabilmente – la religione dell’Agape, dell’amore che si dona gratuitamente ed è così principio di riconciliazione e di pace. Nell’era della globalizzazione questa è diventata una priorità ineludibile per il futuro della famiglia umana, che chiama in causa anzitutto le culture e le religioni. Qui di nuovo, dunque, il cristianesimo ha una speciale missione da compiere, anche in rapporto alle altre religioni, missione che gli deriva dal suo essere la religione dell’Agape, quindi dalla sua essenza e vocazione più profonda.
Per questi due motivi convergenti, di essere la religione del Logos e la religione dell’Agape, la fede cristiana appare in grado di esercitare un ruolo trainante, e anche unificante, nell’incontro tra le religioni e la razionalità scientifico-tecnologica, come anche nell’apertura reciproca tra le culture dei diversi popoli. Abbiamo bisogno, per non essere troppo impari a questo immenso compito, di quell’intelligenza penetrante e di quel coraggio paziente e lungimirante di cui la provvidenza di Dio arricchì, quattro secoli fa, il gesuita di Macerata Matteo Ricci.
ABSTRACT
Possiamo definire una cultura come la forma di espressione comunitaria, sviluppatasi storicamente, delle conoscenze e dei giudizi che caratterizzano la vita di una comunità: la religione è il suo nucleo generatore. Nella cultura ragione e fede convergono e si confrontano. Le culture si incontrano reciprocamente nella storia, perdono la loro forza vitale quando il loro contenuto non appare più dotato di verità e si trasforma in pura consuetudine.
L’inculturazione della fede, che forse è preferibile ricondurre all’incontro delle culture, o interculturalità, presuppone l’universalità dello spirito umano e la sua apertura alla verità: per questo le esigenze fondamentali sono comuni alle diverse culture. La fede è essa stessa cultura e, inserendosi nelle diverse culture, produce in loro una frattura che è però fonte di rinnovamento.
Matteo Ricci, nella sua opera di incarnazione del cristianesimo nella cultura cinese, si è mosso anche sulla base della teologia scolastica del suo tempo, scegliendo di argomentare sulla base della sola razionalità.
Oggi la razionalità scientifica e tecnologica mette in movimento le culture e le religioni, ma non può realizzare da sola una nuova cultura. Nello stesso tempo, la globalizzazione rende ineludibile l’imperativo della pace tra i popoli. Il cristianesimo, come religione del Logos e dell’Agape, ha la possibilità di esercitare un ruolo trainante e unificante nell’incontro delle culture e delle religioni con questa nuova forma di razionalità.
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