Di solito, quando si visita un museo, si fa un viaggio in un passato più o meno lontano ricostruito attraverso reperti e documenti di vario genere. Non è così per il Museo della chitarra di Recanati, allestito in una sala del Palazzo Comunale, dove il passato… è piuttosto recente dato che risale agli anni sessanta e settanta del secolo scorso. Gli appassionati di musica leggera adolescenti in quel periodo potranno fare un tuffo nella loro giovinezza; i giovani di oggi potranno conoscere un po’ di storia della musica amata dai loro genitori.
Il museo mostra diversi esemplari di chitarre abbastanza ben conservati, costruite dalla Eko nel suo periodo migliore e provenienti quasi tutte da una collezione privata. Sicuramente le più diffuse in Italia durante il boom economico, le chitarre elettriche Eko erano esportate anche oltreoceano, come dimostrano depliant pubblicitari in lingua inglese. Pare che gli americani fossero entusiasti di queste chitarre dal look particolarmente vistoso rispetto alla loro produzione che era certamente più sobria.
In Europa la Eko è stata per un certo periodo la più importante costruttrice di chitarre elettriche (ma anche acustiche e da concerto), tuttavia, a partire dagli anni settanta in poi, con l’affermarsi del genere musicale hard rock, ha dovuto cedere spazio alle chitarre americane ben più adatte a quel tipo di musica. Ottime per la musica beat e da balera, le chitarre elettriche Eko non avevano sonorità aggressiva ma per il loro look erano e sono tutt’ora considerate tra le più belle mai costruite.
Il loro successo è dovuto alla geniale intuizione e coraggiosa iniziativa dell’imprenditore recanatese Oliviero Pigini che, notando la crisi della diffusione di fisarmoniche verso la fine degli anni cinquanta, pensò bene di utilizzare parti dedicate alle fisarmoniche per costruire chitarre. Era il periodo del rock’n roll, del twist e del nascente beat , generi nei quali la chitarra elettrica è indispensabile. Così si spiega il particolare look di queste chitarre, soprattutto per le prime costruite: coperture di plastica madreperlacea e tanti tastini per cambiare rapidamente sonorità.
La presenza dei tasti e interruttori per cambiare suono durante l’esecuzione di un brano era un po’ un simbolo di qualità sia per lo strumento che per il chitarrista: nell’immaginario collettivo del tempo , il solista che aveva la chitarra più ricca in accessori appariva migliore di quello con la chitarra più “povera”.
Se per una chitarra acustica la forma non può cambiare più di tanto per necessità funzionali, in una solid body elettrica ci si può sbizzarrire alquanto: ecco allora che si va dal basso a forma di violino (tanto per ricordare i Beatles), a quella a “tulipano”, oppure a forma di tavolozza da pittore o altre forme strane. La più originale è sicuramente quella a forma di freccia, costruita appositamente per uno dei “complessi” (i gruppi musicali di allora) più in voga in Italia negli anni sessanta: i Rokes. L’abbinamento Rokes –Eko è un po’ il simbolo dell’epopea beat nel nostro paese, anche se la ditta ha fornito chitarre a molti altri artisti.
Purtroppo non è più in mostra il modello originale usato dal leader dei Rokes Shel Shapiro, ma non mancano comunque pezzi interessanti, come la Ranger XII, acustica a 12 corde e la rara Cygnus del 1970/71 preamplificata, con tanto di distorsore incorporato (forse un tentativo di sfondare nella musica rock di allora). La Ranger è stata un modello prestigioso, con sonorità molto particolare data dalle doppie corde; è stata usata anche da Battisti e nei dischi di Morandi (Un mondo d’amore).
Il museo illustra sinteticamente anche alcune fasi della lavorazione delle chitarre e espone manifesti pubblicitari dell’epoca in cui spiccano giovanissimi artisti, tra cui, oltre ai citati Morandi e Rokes, Celentano, Equipe 84 e altri meno noti.
Per chi ha vissuto da ragazzo quell’epoca, riaffiorano ricordi e nostalgie; per chi è venuto dopo, respirare un po’ d’aria ”anni sessanta” può essere un’esperienza positiva e culturale, perché la musica di quel periodo, simbolo sicuramente di consumismo, è legata comunque ad avvenimenti importanti, come l’emancipazione femminile e giovanile che hanno influenzato gli anni a venire.
Il biglietto di ingresso comprende anche la visita all’esposizione di cimeli di ben altro stampo che, insieme alla Eko, hanno resa famosa Recanati in Italia e nel mondo: nelle sale dedicate al Leopardi e quelle dedicate a Beniamino Gigli (quest’ultime nel vicino Teatro Persiani), si possono ammirare lettere autografe del poeta, costumi originali di scena, onorificenze e dediche ricevute dal grande tenore e si può anche ascoltare una sua incisione.
Luciano Burzacca
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Con un certo rammarico ho constatato che la figura di Beniamino Gigli è un po’ dimenticata dai maceratesi, la visita al suo museo si concentra solo nel periodo estivo della Stagione lirico-sinfonica dello Sferisterio di Macerata e visitata solamente dagli appassionati del melodramma. A Recanati i depliant divulgativi si trovano solamente scritti in lingua inglese.Si auspica che si trovi più spazio per non dimenticare artisti locali di questo livello.
Le foto del museo sono disponibili nella galleria!