Da sinistra Giorgio Colangeli e Damiano Giacomelli
di Francesca Marsili
«Recitare in dialetto maceratese è frutto di un grande studio, inevitabile in un film che ricostruisce ambiente, relazioni e personaggi con un approccio di estremo realismo. Ho vissuto per giorni a casa di Fabrizio, una delle cento anime di Torchiaro dove eravamo l’evento centrale tutto il giorno, e mi sono ritrovato a fare Ottone senza nemmeno accorgermene».
Giorgio Colangeli in una scena del film Castelrotto
Giorgio Colangeli inizia cosi a raccontare il suo ruolo da protagonista in “Castelrotto”, il primo lungometraggio del regista, sceneggiatore e produttore tolentinate Damiano Giacomelli, presentato al 41esimo Torino Film festival. Una commedia nera investigativa sulle fake news di paese dove il cinema di Giacomelli va oltre la scenografia dei panorami marchigiani, ma ne indaga i meccanismi, per affondare in uno scavo socioculturale, antropologico e linguistico dove l’accento dell’entroterra assume un’espressività autonoma, oltre il folclore. Castelrotto è un paesino appenninico da sempre fuori dalla cronaca e dalla storia, ma un giorno una misteriosa scomparsa riaccende i ricordi e i tormenti repressi di Ottone, (Colangeli), ex cronista locale e maestro elementare in pensione, che approfitta del misfatto per riprendere a battere i tasti della sua macchina da scrivere e vendicarsi di un vecchio torto subito con credibili fake news per far accusare gli uomini che gli hanno rovinato la vita. Nel cast del noir di provincia anche Denise Tantucci, Mirco Abbruzzetti, Fabrizio Ferracane, Antonella Attili, Giorgio Montanini e Stanley Igbokwe. Dopo tre mesi di programmazione nelle principali sale nazionali con grande di pubblico e critica, il film sarà proiettato per l’ultima volta sabato 25 maggio al Cinema Italia di Macerata, alle 18,30, alla presenza del regista Damiano Giacomelli e dell’attore protagonista Giorgio Colangeli che abbiamo intervistato.
Damiano Giacomelli
Giacomelli, perché Castelrotto?
«Nel film è il nome di un paese immaginario, ma è anche il nome di una frazione di Ripe San Ginesio dove sono cresciuto e il suo significato l’ho trovato vicino al senso del film. In realtà la pellicola è stata girata a Torchiaro, una frazione del piccolo comune di Ponzano di Fermo. Ho visitato più di 40 paesi delle Marche, cercavo un particolare rapporto tra l’interno dell’abitazione del protagonista e la piazzetta di fronte a questa. Attraverso la finestra di Ottone, la piazza di Castelrotto diventa quasi un cortile domestico, creando una naturale continuità tra pubblico e privato che chi abita i paesi conosce bene. Così il film si apre a un ampio affresco di personaggi, che in fase di casting abbiamo affidato ad un gruppo misto di attori professionisti e abitanti della zona».
Quale era la sua intenzione da regista e sceneggiatore?
«L’elemento che mi ha fatto dire che questo era il mio primo film è legato al protagonista: Ottone. Il film racconta il superamento di un rancore. All’inizio sembra molto chiuso, ma quello che mi piaceva è che paradossalmente l’investigazione che mette in atto lo avvicina a delle passioni che aveva in passato, e questo genera nella seconda parte del film un’apertura del personaggio. Questa contraddittorietà mi interessava».
L’utilizzo del dialetto, una chiave?
«E’ una delle chiavi, una lingua comune aiuta, ma anche l’umiltà degli attori professionisti che mettono a loro agio i non, per delle scene comuni che nel film funzionano particolarmente. Il dialetto era la lingua naturale con cui pensavo le battute in quel mondo li. Dopo l’uscita mi sono reso conto che effettivamente è la prima volta che il pubblico italiano sente il nostro dialetto al cinema in modo non caricaturale, ma come una lingua reale. Altri dialetti italiani sono sdoganati da tempo al cinema. Dopo le proiezioni capitava spesso di rispondere a domande sul dialetto maceratese, dove a me l’utilizzo non sembrava particolarmente strano, era il modo in cui parlavano i paesani di Casterotto, non potevano parlare altre lingue».
Il film si chiude con una scossa di terremoto pur non essendo elemento portante della pellicola, perchè?
«Ho deciso il periodo di ambientazione del film proprio per far sì che chiudesse con il terremoto del 2016. Con quell’evento le storie di singoli si sono momentaneamente dissolte in un percorso comune: come a dire che tutti i rancori diventano secondari rispetto a un destino collettivo che ci ha segnato».
E’ soddisfatto della sua opera prima e del riscontro del pubblico?
«Molto, per la prima volta mi cimentavo con un film a tutti gli effetti e quindi con una vera distribuzione nei cinema, mentre con i cortometraggi e i documentari realizzati in precedenza le possibilità sono legate ai festival, non c’è una distribuzione in sala vera propria. Castelrotto ha invece avuto questa possibilità, e l’ha sfruttata bene. Abbiamo fatto quasi 200 proiezioni in alcuni dei cinema più importanti d’Italia e ricevuto recensioni positive da parte della critica nazionale».
***
Mirko Abruzzetti e Giorgio Colangeli
Giorgio Colangeli è invece l’attore protagonista.
Cosa ha significato per lei lavorare su un set in un piccolo paese dell’entroterra marchigiano e doversi cimentare con un altro dialetto?
«È stata una grande avventura umana. C’erano una serie di contesti che non conoscevo: il piccolo centro, il dialetto diverso… Ero ospite di uno dei paesani di Torchiaro, fin dall’inizio un grande sostenitore del film, che si chiama Fabrizio Leti Maggio, un vero promotore e animatore della vita del paese. Si è prodigato durante la lavorazione, ero suo ospite, cucinava per me seguendo la mia dieta. Poi girando un mese e mezzo in quella frazione è stata una full immersion dove eravamo l’evento centrale. Sul dialetto, invece, ho avuto una acting coach, l’attrice fermana Rebecca Liberati, con la quale ho fatto un lungo studio sul testo e sono arrivato che avevo già la struttura. Alla fine parlavo come Ottone anche nei momenti di pausa. Tutto questo ha fatto anche riemergere dei ricordi che avevo sepolto e che sono riemersi quando mi sono servirti: tra gli 8 e i 18 anni trascorrevo delle lunghe vacanze estive a Guidonia. All’epoca quella era una zona di immigrazione, c’erano diverse famiglie di contadini marchigiani che venivano dalle provincie di Ascoli e Macerata. I miei vicini erano di Amandola e Macerata e noi a giocavamo con i figli tutte l’estate: alla fine tornavo a Roma ed ero marchigiano. A un certo punto tutto questo è riemerso».
Arriva dalla candidatura ai David di Donatello come miglior attore non protagonista nel film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”, che esattamente come Giacomelli e’ regista del primo film. Com’è lavorare con cineasti esordienti?
«Già leggere una buona sceneggiatura è un buon segno. Ho sempre lavorato con giovani molto qualificati, preparati e determinati, che nonostante la poca esperienza avevano già una autorevolezza e sapevano benissimo cosa volevano».
Chi è Ottone, il suo personaggio?
«E’ un intellettuale di provincia prostrato da un grande lutto familiare di cui sente in colpa e a causa del quale vive isolato, qualcosa di rotto in lui c’è. La ricerca dei presunti colpevoli è per lui un modo per provare a liberarsi da questi sensi di colpa. E’ un po’ un orso, ma anche una persona di grande umanità capace di sentire la responsabilità sociale del suo ruolo e consapevole della crisi che sta vivendo il suo paese, Castelrotto. Ci sono poi cose in cui mi riconosco nel personaggio: come me è un brontolone, sempre critico e ostile alle novità. Ma questo non per un fatto culturale, ma semplice pigrizia, perché a una certa età fare cose nuove ti costa molto e allora preferisci evitare. Ottone è uno che a un certo punto si rimette in gioco e lo fa grazie alla sua fantasia e creatività, alla possibilità di raccontare storielle. È la sua risorsa. Lo storytelling è perfino una terapia».
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati