“La stanza di Veronica”,
il pubblico gradisce
sia la storia che la messinscena

RECENSIONE - La compagnia fiorentina “Giardini dell’arte” in scena al Lauro Rossi di Macerata, per la 54esima rassegna Angelo Perugini. Gli spettatori sono rimasti in religioso silenzio, specialmente nel secondo atto, inchiodati alla poltrona dall’incalzare degli eventi di “un giallo scritto con millimetrica maestria, che lascia inchiodati alla suspense”. Un’altra gemma inanellata dalla rassegna, un altro candidato alla vittoria finale

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La stanza di Veronica

di Fabrizio Cortella

Il sipario si apre. La scena, scarna, è in penombra. La luce dall’alto colpisce la sola poltrona al centro, rossa come il colore del sangue, su cui troneggia una giovane dai lunghi capelli ricci, anch’essi rossi. È in sottoveste, lo sguardo pietrificato non lascia trapelare alcuna emozione. Il tema musicale suona sullo sfondo, intercalato dal rumore dell’acqua che, goccia dopo goccia, scandisce il tempo sinistramente. Buio. Inizia “La stanza di Veronica” con tutti e quattro gli attori sul palco: un’anziana coppia, la governante Maureen e il giardiniere John, invitano nella villa dei Brabissant due giovani appena conosciuti al ristorante, spingendo la giovane Susan, straordinariamente somigliante a Veronica, la figlia dei padroni, morta di tisi quarant’anni prima, ad assumerne il ruolo per consentire una serena morte alla sorella minore Cissie, l’unica superstite dei tre figli dei Brabissant, gravemente ammalata di cancro. È questo l’incipit di uno dei migliori testi teatrali di Ira Levin, prolifico scrittore newyorkese, morto quasi ottantenne nel 2007 e rappresentato domenica al Lauro Rossi dalla compagnia fiorentina “Giardini dell’arte”, nel quarto pomeriggio della 54esima rassegna Angelo Perugini.

La-stanza-di-Veronica-Al pubblico italiano non è particolarmente noto sebbene sia universalmente considerato uno dei più grandi autori di thriller psicologici. Dai suoi lavori sono stati tratti film di enorme successo quali “La donna perfetta” con una splendida Nicole Kidman, “I ragazzi venuti dal Brasile” (meraviglioso Gregory Peck a fine carriera) o “Un bacio prima di morire” interpretato dai quasi esordienti Matt Dillon e Sean Young. Ma se non tutti conoscono questi titoli, di certo nessuno ignora il pluripremiato “Rosemary’s Baby”, tratto dal suo omonimo romanzo, diretto nel 1968 da Roman Polanski e magistralmente interpretato da Mia Farrow e John Cassavetes. Come ebbe a dire Luigi Lunari, il grande commediografo, qui in veste di traduttore: “Le commedie di Levin sono tutte novità: egli è uno che evidentemente scrive solo quando ha qualcosa di nuovo da dire, quando inventa un meccanismo e una storia sorprendenti”.

Non fa eccezione questo “La stanza di Veronica” di cui il regista Marco Lombardi dichiara che «le parole si incastrano perfettamente al loro posto e la leggerezza iniziale dei personaggi nasconde meccanismi di altissima finezza psicologica. Ogni goccia che cade si inserisce negli ingranaggi della storia e aiuta a sciogliere gli occulti pensieri che muovono i personaggi».

La-stanza-di-Veronica-3-325x258Il primo atto, come da tradizione giallista, è preparatorio alla soluzione finale, ma per nulla affatto interlocutorio. Lungo il dipanarsi della vicenda si trovano disseminati alcuni indizi che lasciano presagire agli spettatori più smaliziati i possibili risvolti drammatici. La coppia Laura Bozzi e Aldo Innocenti, interpreti dei due domestici, è molto abile nella loro caratterizzazione: Maureen si mostra assai premurosa e accogliente, affettando una devozione esagerata alla famiglia, mentre John, meticoloso ma un po’ stolido, compie le azioni più banali in modo sottilmente disturbante, complice la parlata asettica, meccanica e l’andatura curva e servile. La giovane Susan, entusiasta e piena di vita, è resa con maestria da una frizzante Margherita Tiesi (peccato solo per la voce poco potente che ne ha penalizzato una performance altrimenti brillante) e non coglie alcuna malizia in ciò che le accade intorno, nonostante qualche insinuante avvertimento del suo enigmatico boyfriend (Andrea Evangelisti), conosciuto soltanto la domenica precedente. L’atto termina con un sorprendente coup de théatre: i domestici riappaiono in scena completamente trasformati, comportandosi come i coniugi Brabissant, morti ormai da tempo. La Bozzi, sciolta la rossa chioma leonina – di nuovo il rosso, colore simbolico e ricorrente nel testo – sfoggia una rabbia davvero tagliente e Innocenti non è da meno nell’incarnare il padre inflessibile, schiena dritta e tono imperioso. Susan-Veronica, impietrita, comprende finalmente che nulla è come sembrava: la Tiesi è estremamente brava nel cambiare a sua volta il registro della recitazione, scivolando agevolmente dal frivolo nel disperato.

La-stanza-di-Veronica-2-ok-325x178Il secondo atto porta tali premesse all’estreme conseguenze ed è un susseguirsi di rivelazioni sempre più inquietanti fino al “necessario” delitto, reso tanto plasticamente (ancora un bravo alla giovane Tiesi) da mettere i brividi agli spettatori in sala, sebbene non si veda nulla di realmente truculento. Chiude la pièce un’ultima rivelazione, totalmente inattesa dal pubblico, a rimarcare ancora il tema scottante dell’incesto, già emerso in precedenza.

Il pubblico è rimasto in religioso silenzio, specialmente nel secondo atto, inchiodato alla poltrona dall’incalzare degli eventi di “un giallo scritto con millimetrica maestria, che lascia inchiodati alla suspense”. E, alla fine, ha mostrato chiaramente di avere gradito sia la storia, sia la messinscena, applaudendo gli attori a lungo e con calore. Un’altra gemma inanellata dalla rassegna, un altro candidato alla vittoria finale.

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