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La scuola in subbuglio, Lucia Tancredi:
«Studenti nelle piazze segno di salute
Università assurde e test d’ingresso fuffa»

L'INTERVISTA all'insegnante e scrittrice che analizza da osservatrice diretta il mondo dell'istruzione, dalla Dad alle proteste, passando per la formazione post diploma. Sull'atteggiamento degli adulti: «Hanno confuso la protesta con una loro immaturità, un atteggiamento lassista nei confronti delle responsabilità, della fatica e del giudizio degli esami». Sulla minorazione delle facoltà umanistiche: «Porta alla disumanizzazione. Questo significa innanzitutto la perdita di una tradizione, di una tipicità italiana che dovrebbe essere difesa come una forma d’identità nazionale»

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Lucia Tancredi

di Benedetta Di Donato e Anna-Chiara Marsili*

Di fronte alle ultime agitazioni ed al disordine che pervade il mondo della scuola, Lucia Tancredi, osservatrice d’eccezione, con la sua spiccata personalità ed il suo accentuato carisma ha analizzato a fondo e ha esposto con fare schietto ed esuberante il suo punto di vista.
Docente, o come si definirebbe lei “formatrice” del liceo scientifico “Galileo Galilei” di Macerata, scrittrice ed editrice di numerosi libri di successo ci rivela una chiave di lettura estremamente critica e coerente dei problemi che la scuola italiana vive oggi.

Professoressa, dopo due anni di assenza fisica nelle scuole, ritiene che la Dad abbia influito negativamente sugli studenti? Se sì, in che modo?
«Questi due anni hanno dimostrato il fallimento della didattica a distanza: se all’inizio la Dad veniva proposta come una forma alternativa, più aggiornata e moderna di didattica, ha rivelato quanto sia inutile se non deleteria. La scuola è presenza di corpi che occupano e vivificano i luoghi, l’apprendimento è guardarsi, ascoltarsi, saper stare l’uno in presenza dell’altro. La didattica “in vitro” non è la scuola. Sono stati due anni faticosissimi per gli insegnanti e soprattutto per gli studenti, nei quali vedo un atteggiamento rassegnato, disilluso, disincantato nei confronti delle aspettative di futuro».

Non crede invece che le recenti occupazioni delle piazze da parte degli studenti siano sintomo di una ritrovata vitalità?
«Devo confessare che aver visto nelle ultime settimane gli studenti occupare le piazze, rivendicare e chiedere ascolto, far sentire la loro voce, mi è sembrato in ogni caso un segno di salute e un esempio di cittadinanza attiva. Uscire dalla privatezza e dalla solitudine delle camerette, da questo individualismo indotto e subito, per occupare la piazza, li ha resi soggetti politici attivi».

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Gli studenti in piazza dopo la morte di Giuseppe Lenoci

Ci sorprende che la pensi in questo modo, dal momento che non tutti hanno recepito in maniera positiva questa presa d’iniziativa.
«Quello che mi ha amareggiato è stato l’atteggiamento da parte del mondo degli adulti: o la repressione poliziesca, che è sempre un fallimento perché significa porsi in una posizione conflittuale e non interlocutoria, o un atteggiamento paternalistico, moralistico e recriminatorio, quello di aver confuso la protesta degli studenti con una loro immaturità, un atteggiamento lassista nei confronti delle responsabilità, della fatica e del giudizio degli esami.
Secondo me gli studenti oggi protestano e rivendicano molto poco, questo non è un buon segnale.
Il filosofo Umberto Galimberti nel 2007 scriveva il saggio “L’ospite inquietante: il nichilismo e i giovani”. Quello che sosteneva quindici anni fa oggi è diventato parossistico: i giovani si fanno sentire e protestano molto poco perché si sentono già sconfitti; di fronte all’adultizzazione di una società così settaria e competitiva mollano la spugna, oppure lasciano il campo a quei compagni che già a quindici anni sono il clone dei genitori e dei loro formatori».

Ritiene che tale nichilismo sia presente allo stesso grado in studenti di età diverse? E quale potrebbe essere, secondo lei, un rimedio?
«L’ospite inquietante, il nichilismo che nasce da una desertificazione di senso nei riguardi della propria esistenza, è qualcosa che io riscopro soprattutto quando i ragazzi arrivano all’ultimo anno. E’ quello il momento in cui il “sì alla vita”, l’atteggiamento di apertura decade verticalmente, perché i ragazzi si trovano di fronte ad una ricerca esasperata di senso da parte degli adulti. Già da qualche anno, soprattutto per conto delle famigerate “università private d’eccellenza”, gli studenti del quarto anno ipotecano il futuro esercitandosi sottobanco a prepararsi per fantomatici test, sborsando cifre assurde per frequentare corsi tenuti dalle stesse università che devono selezionarli. La ministra Messa ha deliberato la stessa proposta per il test di Medicina anticipandolo al quarto anno della scuola superiore, quando bisognerebbe studiare Ariosto o Virgilio, il Settecento dei Lumi. Parlo chiaramente delle mie discipline. L’imperativo categorico è proiettarsi prepotentemente verso un futuro in una società che paradossalmente non dà futuro.
Quello che sento di fare, quello che dovrebbe fare la scuola forse è insegnare, come facevano i Greci, l’arte del vivere, di saper stare al mondo, l’essere centrati e presenti a sé stessi, hic et nunc, fare proprio il carpe diem oraziano, ovvero riuscire a godere del momento. La cosa più saggia, la più difficile».

A proposito di Università, saremmo interessate a conoscere i suoi punti di vista riguardo questo mondo a cui ci accingiamo ad entrare.
«Sono molto critica nei confronti dell’istituzione universitaria. Sto generalizzando anche in maniera provocatoria, ma qualcuno deve avere il coraggio di dire quello che pensiamo in tanti. I ragazzi si sentono fragili, impotenti, confusi e totalmente disorientati quando si avvicinano al mondo universitario che spesso percepiscono inospitale, non inclusivo, assurdo, con pretese fortemente ambigue. L’università è un mondo che si è evoluto molto poco e male, non solo in Italia. Per certi versi rappresenta la tipizzazione in negativo del vecchio e del nuovo. La baronìa di certi professori è una cosa durissima da sconfiggere, quasi quanto lo è stato il latifondo nell’Italia meridionale.
L’elezione del rettore rivela tutte le distorsioni di un sistema di potere occulto, anche nelle piccole università; dovesse essere un romanzo, potrebbe travalicare i generi, una via di mezzo tra una spy story e un’opera buffa.
Circa il nuovo, riflette il peggio di una società neo liberale: un luogo del sapere diventato azienda, prono alla logica del profitto e del mercato, portato a misurare le cose in termini quantitativi piuttosto che qualitativi, che sfrutta la forza lavoro e la precarizzazione, promuove un sistema concorrenziale volto a premiare il nepotismo, la scaltrezza, l’adattamento darwiniano, non certo i migliori, che fa molto poco per migliorare i divari sociali, territoriali e quelli di genere. Un mondo dove l’elezione di una donna come Rettore fa scalpore. Dove la didattica è inesistente e non si fa nulla per arginare la dispersione studentesca che pone l’Italia al penultimo posto, dopo la Romania».

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La ministra Maria Cristina Messa (foto Wikipedia)

Guardandoci intorno ciò che spaventa noi ragazzi e ragazze non è solo il nuovo ambiente che ci attende, ma anche lo stesso test che permette di entrarvi. Crede nella necessità di mantenerlo?
«In Italia servono medici e l’epidemia l’ha dimostrato, eppure superare il test di medicina è quasi una seduta spiritica: uno dei tanti messaggi contraddittori e ambigui del mondo universitario. Un luminare come Giuseppe Di Benedetto, uno dei più famosi cardiochirurghi a livello internazionale, ha sostenuto che non sarebbe riuscito a superare l’attuale test di medicina, quindi non avrebbe eseguito i suoi diciottomila interventi riusciti.
I test d’ammissione sono una “fuffa” e sono incostituzionali, perché vengono meno al diritto allo studio sancito dalla Costituzione.
L’università non è un ufficio di collocamento e non è tenuta a giudicare gli studenti in base alla capacità di assorbimento da parte del mercato. I test universitari spesso non servono a regolamentare la capienza delle università, visto che qualsiasi velleitaria o risibile facoltà ha trovato il modo per fare cassa.
La ministra Maria Cristina Messa, a proposito del test di Medicina, ha precisato che sono “ quesiti di ragionamento logico e numerico”; questo significa che le nostre figure professionali di domani dovranno dipendere da quesiti d’ispirazione enigmistica, stile Sudoku; peggio ancora, dovranno dipendere dall’idea che la logica sia infallibile come un dogma, quando invece i quesiti logici sono arbitrari e fallibilissimi. Per non parlare delle domande di cultura generale, molto spesso grottesche e risibili, una vera lotteria: un esempio, “dove si trova il Museo delle cere di Madame Toussaud?”.
Posso testimoniare che molti dei miei migliori studenti e studentesse hanno dovuto rinunciare alla loro vocazione, quella di fare il medico, il veterinario, l’architetto, per non essere entrati nella graduatoria a favore di altri che non erano per nulla convinti. Oggi, oltre a studiare, per superare i test si fa un treno bianco per Lourdes o il pellegrinaggio a Loreto. Ai nostri tempi, terminato l’esame di maturità ci concedevamo mesi sabbatici per poi iscriverci all’ultimo minuto alla facoltà che volevamo. Chi se la sente di criticare gli studenti ora è un ipocrita».

Nelle vesti di insegnante di italiano e latino, qual è secondo lei il futuro delle facoltà umanistiche?
«Le università umanistiche sono considerate un divertissement, un lusso, o comunque una scelta molto bohemien. Tutti dovrebbero fare solo ingegneria gestionale. Detesto chi mi restringe il mondo.
Il punto è questo: la minorazione delle facoltà umanistiche porta alla disumanizzazione. Questo significa innanzitutto la perdita di una tradizione, di una tipicità italiana che dovrebbe essere difesa come una forma d’identità nazionale. Tutto dovrebbe diventare più umanistico: il laureato in lettere e filosofia in questo momento dovrebbe lavorare nelle aziende, nelle istituzioni pubbliche, occupandosi di creare ponti e mediazioni culturali, operando per una società trasversale e multiculturale. Nella realtà, anche chi si iscrive ad Economia o Architettura dovrebbe coltivare le discipline umanistiche, poi non lamentiamoci se non ci riconosciamo nelle forme del mondo che creiamo».

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Il ministro Patrizio Bianchi

In una realtà così globalizzata, anche il mondo scolastico risente di tale omologazione? In caso affermativo, come si pone a riguardo?
«A mio parere bisogna distogliere la politica dall’idea che noi italiani dobbiamo uniformarci agli standard europei o internazionali; la nostra scuola funziona bene, nonostante tutto, ha livelli altissimi rispetto alla media, in termini di formazione intendo, non di test a crocette e Invalsi.
Se gli standard internazionali sono i licei di quattro anni, noi teniamoci quelli da cinque. I nostri sono gli unici licei al mondo in cui si studia il latino e il greco, si insegna la storia della letteratura, della filosofia, dell’arte, si attinge ad una tradizione antica e paradossalmente modernissima che insiste sulla centralità dell’uomo e non lo strumentalizza. Quando uno studente decide di fare un anno all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, ci rassegniamo al fatto che, al di là dell’esperienza umana e linguistica motivante, non avrà visto un libro, avrà frequentato discipline come Acquerello, Sopravvivenza, Fotografia e per tre mesi si sarà preparato al ballo di fine anno come in “Happy Days”.
Una solida formazione umanistica crea gli anticorpi per aiutare studenti e studentesse a individuare la “fuffa” di questo mondo di magnifiche sorti e progressive che li sta cannibalizzando.
Insegnare discipline umanistiche è una forma di resistenza, di dissidenza nei confronti della manipolazione del futuro, il centramento per sentirsi presenti e vivi, senza doverlo capire per forza sbattendo contro un palo».

*Benedetta Di Donato e Anna-Chiara Marsili, studentesse del liceo scientifico “Galilei” di Macerata. Intervista realizzata nell’ambito del progetto Alternanza Scuola Lavoro.

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