di Alessandra Pierini
Un filo sottilissimo e ancestrale che lega i Sibillini all’Irlanda, passando attraverso i Celti, e perchè no?, l’amaro Sibilla potrebbe essere la chiave per dare alle Marche e alla provincia di Macerata quel respiro internazionale finora negato tanto che “Marche” non ha ancora oggi una tradizione in inglese.
La proposta è arrivata da Simonetta Varnelli, a margine della presentazione del libro “Forse non tutti sanno che nelle Marche” di Chiara Giacobelli.
Per l’occasione la conosciutissima distilleria ha aperto le porte del suo stabilimento di Muccia, mostrando le fasi del processo produttivo dell’amaro Sibilla, protagonista dell’evento, al quale nel libro è dedicato un intero capitolo.
«Erbe, miele e tempo – ha spiegato Orietta Varnelli – è questo il miracolo di questo amaro che continuiamo a produrre con il metodo del nonno».
Il nonno è Girolamo Varnelli che viene immaginato da Cesare Catà, docente e filosofo, come intento a cogliere i segreti di fate e mazzamurelli: «Queste figure non solo sono degli archetipi, delle forme della coscienza ma hanno un senso psicanalitico». In un percorso che passa dal Guerrin Meschino, eroe della tradizione orale, dal suo incontro con la dea Sibilla e fino alla redenzione dal peccato mortale, per finire in Irlanda attraverso altri eroi che dal Meschino prendono ispirazione si arriva al percorso delle fate: «Una notte – racconta Catà – un gruppo di pastori si trova a danzare tra l’erba con delle incantevoli fanciulle. Uno di loro solleva la gonna ad una ragazza e si accorge che ha gli zoccoli da capra, tipici delle fate di casa nostra. Le fate scappano ma con gli zoccoli lasciano traccia del loro passaggio in un sentiero che arriva fino ai laghi di Pilato. Mi piace immaginare che qualcuno sappia quali erbe hanno calpestato e le abbia usate per fare un magico amaro».
Superare la difficoltà delle Marche di comunicarsi, farsi conoscere e apprezzare: questo l’obiettivo del libro di Chiara Giacobelli, autrice di “Forse non tutti sanno che nelle Marche” che arriva dopo il successo di “101 cose da fare nelle Marche”. «Molti marchigiani l’hanno comprato – spiega- ma anche molti che non conoscevano la nostra regione e vogliono scoprirla».
Ed è Giacomo Leopardi, simbolo della marchigianità, a rappresentare secondo Cesare Catà, questa propensione tutta marchigiana alla eccessiva discrezione: «Leopardi – sottolinea – non parla con Silvia ma a Silvia che non saprà mai del suo interesse».
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Giacomo Leopardi, così come Beniamino Gigli e Maria Montessori (tanto per fare dei nomi), non è un simbolo della marchigianità: troppo, troppo poco. Giacomo è un simbolo dell’umanità e quindi non si può collocare nello spazio (e neanche nel tempo).
Soprattutto quell’amaro può essere la chiave per comunicarsi meglio, se solo anche Leopardi avesse potuto averne a disposizione le cose con Silvia sarebbero senz’altro andate diversamente e la sua poesia si sarebbe” internazionalizzata” di più. Però non bisogna esagerare con le dosi, specie prima di mettersi alla guida.
Che poi Leopardi gli avrebbe scritto anche lo slogan: amaro sibilla è la vita / altro mai nulla / e il fernet è immondo.