di Filippo Davoli
La campagna maceratese è di una bellezza difficilmente resistibile. Si dice che il buon Dio, all’atto di creare il Paradiso terrestre, si sia affacciato sul mondo e – visto quel panorama lì – l’abbia copiato a pié pari. Così adesso ci sono due luoghi dell’universo che si somigliano: la nostra serie di mari d’erba (il nostro moto ondoso di colline, che meglio di ogni parafrasi spiega quel naufragar leopardiano) e il Giardino dell’Eden da cui venne cacciata la coppia dei progenitori. E dando credito all’esegesi magisteriale, trattandosi – quel giardino – di un luogo dello spirito, di panorami belli come il nostro c’è solamente il nostro.
In verità, uno scrittore sardo di notevole qualità, Antonio Puddu, mi fece scoprire anni fa, proprio nel cuore della sua isola, un territorio insospettato di colline che, sebbene non identiche alle nostre, richiama al cuore le immagini con cui siamo cresciuti e a cui la maggior parte di noi che vive fuori, prima o poi torna, non fosse che per morirci.
Vi faccio una piccola confidenza: pur abitando da sempre all’ultimo piano di un palazzo del centro storico maceratese, gli avrei preferito di gran lunga un pianterreno a cui arrivassero tutti i rumori della strada (e della vita); passi, tacchi, rullo di pneumatici sul già dissestato pavè, voci in piena notte di studenti o di insonni. Però c’è un angolo di casa che mi riscatta dall’imperioso (e per me fastidioso) silenzio: la finestra che guarda dai Sibillini all’Adriatico: in fondo, di fronte a me, nelle giornate limpide, il Gran Sasso e la Maiella; alla sinistra Corridonia, Monte San Giusto, Montegranaro, e dietro Fermo. Più a sinistra il mare. Sporgendosi un po’ di più, appena un po’ di più, comincia la macchia di verde assoluto che guarda al Conero: è già un’altra Marca, sebbene contigua.
In questo piccolo universo che si schiude ai miei occhi ininterrottamente da una vita e che non è mai identico a sé stesso, a me pare di poter abbracciare tutta la mia marchigianità: tutta la mia picenità. Ecco, proprio sotto di me, le ultime luci serali di Corso Cairoli, le finestre che giocano ad accendersi e spegnersi come su una scacchiera elettronica; e poi i coppi, qua risistemati e rimessi a nuovo, là con la parietaria che vi si ambienta e sembrano massaie che dialogano tra loro di ritorno dalla spesa. E poi i piccioni – che a dispetto delle disinfestazioni ci sono ancora, e volando sopra di me salutano col loro suono roco e rotondo, poi schizzano via. Un tempo c’erano i gabbiani, a volteggiare: erano gli anni non profumati della discarica. L’anno scorso arrivarono gli storni (uno mi entrò in camera e mi fissava dal comodino, per nulla spaventato né da me né dal cane: lo liberai prima di dargli il nome, per non rimpiangerlo quando se ne fosse andato).
Nelle notti di migliore sedimento interiore, lo sguardo si fissa sul Girfalco fermano, visibilissimo ad occhio nudo: anche di là mi salutano anime, a cominciare da mia madre che vi riposa per sempre. E poi altri volti amici, oppure che non conosco ma che so miei. È una cosa buffa essere in un certo senso soli al mondo e contemporaneamente sentirsi dentro le vene una storia lunghissima di nomi che si intrecciano e si snodano, storie che capriolano su sé stesse fatte d’aria e di sogno, ricordi, lampi, parole rimarginate, assenze da rimarginare.
Poi si ritorna. Raramente vado a dormire presto (per fortuna recupero in intensità il sonno che perdo per leggere libri). Se il Signore lo permette, appena è giorno si può tornare in strada. Anche lì ci sono cose che parlano: le pietre, le case (il pensiero mi va invariabilmente a chi ha scelto di posizionarle in un verso o in un altro perché avessero luce, aria, stabilità), le voci familiari, i cari accenti a volte grossolani, grassi, ma sempre (o forse per questo) sempre rassicuranti. Credo anzi di essere nato per essere figlio di questa terra: che non esista il caso, che non sarei potuto nascere altrove.
E penso anche che ha ragione il mio amico Claudio Sanfilippo, quando scrive – nel testo della sua bella canzone Viaggiatori di frodo – che sono le cose che guardano noi. La poetessa Franca Grisoni, quando seppe che il silenzio di casa mi opprimeva e mi creava ansia e panico, mi suggerì una cura strampalata (che tuttavia funzionò): “Accarezza la casa, parla con le sedie, coi mobili; tutto è grazia”.
Le cose che guardano noi: tu vieni al mondo, sali verso la luce della terra, e trovi cose tutt’intorno che ti stanno aspettando, che ti aspettavano da sempre e ti sorridono. È un segreto per pochi, immagino. Ma è una bella esperienza.
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