di Edoardo Salvioni
Come l’acqua, l’aria è veicolo del suono, come quest’ultimo lo è della parola. L’acqua è impressa concentricamente dal suono, porgendosi in espansione dal centro che lo origina. Avviene l’istante del contatto di corpi e stati variabili. A suo modo l’acqua suggerisce, a chi vuole accoglierla, la sua memoria e il pensiero. Entrambi sono stati fluidi come solidi, a seconda dei casi. I poeti sembrano rendersi maggiormente persuasi ad udirne una voce che si amplia, trovando risonanza nella propria voce, come strumento che si faccia tramite, traduzione di un’eco. Remo Pagnanelli, poeta maceratese, voce sensibilissima ad accogliere i segni della natura e consegnarle la propria intima testimonianza, scriveva: “Come suggerite dall’acqua che ha memoria, / le chiome negroargentee degli aromi morti, / prossime al celeste, umidamente vive”. Così un altro poeta insieme a lui, Reiner Maria Rilke, noto poeta boemo, quasi un secolo prima scorreva in versi, vicinissimo nell’intenzione: “Colui che si spande come una sorgente, è conosciuto dalla conoscenza”. Giungendo ancora più indietro e terminando in un altro classico, nel poeta tedesco Goethe, nella traduzione del poeta italiano Diego Valeri del Canto degli spiriti sopra le acque, l’occhio scorre: O anima dell ‘uomo,/ come all’acqua somigli!/ O destino dell’uomo/ come somigli al vento!”. Sebbene ognuno attui le proprie variazioni con le sostanziali differenze, nei poeti si manifesta il cercare o il consegnarsi propriamente come acqua o vento. Vi è l’esigenza e la constatazione di una liquida o aerea materia per placare il richiamo incessante della sete d’acqua e d’ossigeno, o di tutto ciò che muova il sangue. Partendo da questo coro immaginario di voci, di viandanti del suono, si segue questo richiamo e si intraprende un possibile viaggio.
Si può allora prestare ascolto alla voce di un giovane torinese di nome Furio Jesi, una figura sui generis, studioso della
mitologia come forma di conoscenza e sopravvivenza di una storia, poeta, venuto a mancare nel 1980, alla breve età di 39 anni. Nato a Torino nel 1941 , con un percorso formativo alquanto irregolare ed unico, abbandonando gli studi liceali appena quindicenne, ironicamente simile al Leopardi quasi impossibilitamte i suoi tutori all’insegnamento poiché fin troppo dotato di conoscenze.
La voce di Jesi è delicata ( come un bel documentario video mostra) simile ad un fanciullo divino, simile cioè a colui che, secondo le sue stesse parole è “l’orfano abbandonato, che vive la prima ora del mondo, affronta precisamente questi pericoli e presta orecchio a queste voci della natura. Dinanzi a lui, privo di padre e di madre, la natura è simultaneamente materna e pericolosa”. Queste furono le parole che sorsero a Furio Jesi, prestando orecchio al fiume Nilo in Egitto, quando intraprese appena quindicenne la sua personale ricerca nei misteri delle antiche civiltà di questa terra:
<Parve allora di viaggiare sulle acque del Nilo verso una remota infanzia, ben più antica del tempio egizio. Il paesaggio solitario del fiume e del deserto fu nuovamente l’ora prima dell’uomo, cui l’uomo ritorna con meraviglia commossa alle profondità di se quotidianamente ignorate. E fu anche un andare verso la morte, e cioè verso il limite della distruzione che coincide con l’ora della nascita.>
Molteplici sarebbero le direzioni da intraprendere, come cammini nel deserto in vista di una sorgente, per descrivere Furio Jesi. Sarebbe ovviamente impossibile incasellarlo in silico, senza perdersi nelle sabbie di concetti e teorie. Risulta ardua un’attenta ricognizione di una vita trascorsa, per configurarne la direzione. Ancora meglio, si potrebbe parlare di innumerevoli direzioni nella vastità delle strade. Bisogna allora come prefigurarsi il percorso del suono nell’acqua. Dalle regolari emanazioni che si volgono in ogni direzione, si ha una gestazione di pensiero profonda come il letto d’oceano. Furio Jesi scrisse queste parole ricordandosi di questo viaggio, compiuto come una sorta di iniziazione. Non è una semplice, per quanto ardua, finalità intellettuale a muoverlo. Egli sembra cercare di ritrovare, se mai possibile non solo nell’immaginazione, una fonte comune alla storia dell’intera umanità. Cercare una sorgente ignota, in cui convergono una possibile verità sul mito come la più pura forma di storia umana, soggetta come nessun’altra ad un’incessante metamorfosi, così come alla strumentalità totale, essendo una forte forma di narrazione, se non la stessa essenza del narrare. Attuare ciò risulta tanto avvincente quanto arduo, se non pericoloso, perché il tempo si sussegue continuamente, l’oggetto della ricerca sfugge. Con il tempo si susseguono anche le parole e la memoria, le intenzioni degli uomini, che non sempre si rivelano una fonte vera, ma una palude in cui incagliarsi. Lo scrittore torinese non cade nel semplice vagheggiamento d’infanzia, né tantomeno mostra una malcelata simpatia di trascendere i propri confini corporei. Non muove alla consolazione dal terrore della notte, nell’ignoto, in una bambagia di pura luce metafisica. Dalla sua riflessione si ha il senso di discoprimento di una fisiologia ben radicata nell’uomo. Si può evincere ciò compiendo passi minuziosi a ritroso ed in avanti nel possibile, perdendono e ritrovando tracce. Nell’atto di indursi e condursi ad un originario e ad un autentico stato primordiale di cui il mito sarebbe il segno che rimanda all’indistinguibilità dell’origine, si può manifestare il volto stesso della morte, che coincide con ciò che non si è ancora, nel tentativo di far rinascere il nascere stesso, la primaria scaturigine.
Jesi scrisse molte opere sui più disparati argomenti, pur accomunati da un interesse centrale nei confronti del mito e del suo ripresentarsi in epoca moderna e contemporanea. Dai precoci interessi d’egittologia con alcuni saggi su rivista, si volse, come si evince dalle sue stesse parole, ad una critica “dei concetti fondamentali della mitologia”. Dall’ opera iniziale, Germania Segreta. Miti nella cultura tedesca del ‘900, a Spartakus, simbologia della rivolta (rimasto inedito sino a qualche anno fa, portato alle stampe dopo un trentennio), passando per Letteratura e mito. In esso sono contenuti dei saggi decisamente acuti sui poeti Cesare Pavese, Ezra Pound, Rainer Maria Rilke. L’introduzione del volume è una davvero curiosa introduzione su Giovanni Pascoli, da una memoria dello scrittore marchigiano Alfredo Panzini a suo riguardo, sulla memoria del padre e lo stato di orfanità. Il suo percorso si conscluse col tanto controverso quanto complesso Cultura di destra, un’analisi filosofica condotta su ogni fronte sul versante culturale in questione. Tale termine nel lessico dell’autore designa qualsiasi retaggio culturale che abbia la sua scaturigine essoterica, di dimensione pubblica, o tanto più esoterica, di una comunità circoscritta e spesso incoffessabile, in “Idee senza parole”. Tale termine desunto dal filosofo tedesco Oswald Spengler, da questo suo passo: “L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue; idee senza parole”. Queste idee hanno innanzitutto una funzione evocativa, vengono spesso scritte con la maiuscola, come ad indicare già in grafia, l’assoluta indiscutibilità del verbo. Sino a poter sfociare nell’utilizzo spietato, a volte nelle circostanze storiche più tristi, nel potere retorico e malatamente tecnicizzato di termini come “Tradizione”,”Cultura”,”Razza”,”Origine”,”Sacro”,”Passato”, “Giustizia”, “Libertà”, “Rivoluzione”. Essi determinano la tenuta persuasiva di discorsi di matrice ideologica, finalizzata al mantenimento e la continuità del potere, quanto ad ogni coercizione sociale e comunitaria, al di là della problematica coppia politica destra/sinistra. Esse sono poste entrambe a critica nella misura in cui emergono da tale matrice comune di contraffazione mistificatoria, nel concetto che l’autore designa come “macchina mitologica”. Esso indica un sistema riproducente mitologemi, ovverosia ripresentazioni di una storia originaria di carattere mitologico o che rimanda ad essa come ad un aldilà fuori dal tempo ma pur sempre influente. Queste storie riconducibili ad un mito originario, un aldilà remoto quanto futuro storico di qualsiasi epoca e tipo, sono in grado di mantenere o legittimare il potere. Poiché, come l’autore stesso ci ricorda, “ogni mitologia è sempre una mitologia del potere”. Oltre alla copiosa e vivace produzione saggistica, l’autore torinese ci ha lasciato un racconto lungo per bambini, su Daniele, un fanciullo alle prese con mille creature bizzarre e meravigliose, chiamato La casa incantata. Insieme a quest’opera di fantasia, un altro romanzo “vampirico”, sulla figura del vampiro come erede del demone tipico della mitologia greca, intitolato L’ultima notte, nonché una raccolta di poemetti, chiamata l’esilio. Tutti passaggi di un unico percorso concentrico di pura emanazione, tra mistero e disvelamento. Tante voci in una voce, per una ricerca volta al “geroglifico celato/ sotto la creazione”, alla chiave di una porta che ognuno cerca di aprire per tentare di introdursi ed abitare il proprio essere, come nelle parole della poetessa tedesca Else Lasker-Schüler.
Di qui alcuni suoi passi dai succitati volumi, dalle opere saggistiche, dalle poesie e dagli epistolari, per delineare alcuni punti focali del suo pensiero:
<La forza misteriosa che soccorre l’orfano primordiale, l’oscura benevolenza che la natura gli mostra nell’ora stessa in cui gli svela il suo volto più minaccioso, la potenza del fanciullo quale arbitro di metamorfosi, hanno tutte una radice di gioia. “Forse non a caso” il poeta a cui Eliot dedicò The waste land (uno dei testi lirici più dolorosamente testimoni della fine di un ciclo), Ezra Pound, evocò nel secondo dei Cantos la terrifica gioia del fanciullo Dioniso in atto di compiere la metamorfosi della nave dei pirati sul mare. Di quella metamorfosi sono noti paralleli nelle vicende di orfani primordiali estranei al mito greco. In tutto brilla la gioia del fanciullo primordiale, dell’orfano: la stessa gioia che rende sconvolgente il sembiante di Dioniso nelle Baccanti di Euripide e che permette di comprendere quella tragedia come simbolo della fine di un ciclo e annuncio di un’ora nuova. Nelle grandi svolte della storia della cultura, e soprattutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo ed annuncio del finire di un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’ orfano. Ad essa sembra che l’animo umano affidi ciecamente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi.>(da Letteratura e Mito, Einaudi, Torino, 1968, pp. 12-13)
In questo passo si descrive lo stato di un particolare fanciullo inerente alla mitologia, l’orfano primordiale, il quale ha potere di trasformare se stesso ed apportare trasformazioni alla realtà, dunque egli diviene a suo modo una metafora dei cambiamenti della storia umana, tra tragedia della fine ed attesa di un tempo nuovo nello stesso momento:
<Il bambino non è soltanto più vicino alla morte di quanto non lo sia l’adulto, perché è più vicino alla nascita e dunque al limitare della non-esistenza. Egli è più dell’adulto, vicino alla morte, poiché la morte può colpirlo più facilmente.
Per migliaia di anni ( i tempi attuali costituiscono un’eccezione abbastanza relativa) il bambino fu, insieme con il vecchio, colui che sta per morire: Lo “enfant accroupi plein de tristesse” [bambino accovacciato pieno di malinconia] del Bateau ivre [Il battello ebbro, noto poemetto di Rimbaud] è solidale al vecchio delle Remembrances du vieillard idiot [memorie dell’ebete vegliardo], che del resto consistono in un’evocazione dell’infanzia, o meglio “des jeunes crimes”[giovanili crimini]. “Crimes” [crimini], “tristesses” [malinconie]: segni tutti di diversità e commercio con la morte, dirimpetto al regno degli adulti, o meglio entro la sua cornice. Essere adulti né “enfant accroupi”, né “vielliard idiot”, significa esercitare il potere, lungi da “crimes” e “tristesses”, lungi dalla morte. I posteri sono coloro che in qualche misura sfuggono alla morte a tempo indeterminato, e perciò sono gli adulti per eccellenza, i detentori del potere per eccellenza. Essi, i posteri, avranno in mano Rimbaud come il poeta del Bauteau Ivre, non mancheranno di osservare che “la fine del Bauteau Ivre prefigura il destino di Rimbaud, e al tempo stesso, inorriditi per il tipo di merce che non possono non gradire, parleranno dell’opera “esigua e folgorante che, alla fine del XIX secolo, Arthur Rimbaud ci abbandonò quasi con disdegno.>
(da Lettura del “Bateau Ivre” di Rimbaud, con una nota di Andrea Cavalletti, Quodlibet, Macerata, 1996, pp. 14-15).
Dal passo si pone in analisi lo stato del bambino come possibile stato prossimo alla morte, e da esso tutte le implicazioni che nella logica sociale si assumono attraverso questa possibilità, in relazione alle dinamiche del potere. Allo stesso modo il poeta, come il bambino, si trova in questo stato di perenne contingenza ed opposizione contigua al potere degli adulti:
<Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivoltà la città è sentita veramente come “L’haut-lieu” [letteralmente “alto luogo”, ad indicare una zona che assume una connotazione assoluta] , e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli “altri”; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi degli attaccchi, molto più che giocando da bambini nei suoi cortili o per le sue strade, o passeggiandovi poi con una donna. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città. Ma quando la rivolta è trascorsa, indipendentemente dal suo esito ognuno torna ad essere individuo in una società migliore, peggiore o uguale a quella di prima. Quando è finito lo scontro – si può essere in prigione, o in un nascondiglio, o tranquillamente in casa propria -, ricominciano le individuali battaglie quotidiane.>
(Ibidem, pp. 23-24)
In questa citazione si descrive la cognizione che un abitante ha del proprio luogo, della propria città. Viene assunta attraverso l’ottica insolita della rivolta, in cui lo spazio circostante assume una sorta di sospensione. Ogni gesto viene sentito come un apporto reale ed immediato. Da essa poi ci si rivolge nelle mansioni abitudinarie, comunque consci che una dinamica sostanziale e poderosa sia avvenuta:
[Jesi a Kerenyi]
< […] Ciò significa che i tempi sono particolarmente oscuri. Dubito, d’altronde, che essi possano riischiararsi senza prima diventare ancora più oscuri: senza cioè che sia raggiunto il culmine della crisi. E probabilmente sarà una crisi che si dispiegherà nelle vie e si combatterà con le armi; una crisi in cui anche maestro e discepolo, e padre e figlio, si ritroveranno concretamente nemici, nell’una e nell’altra schiera. Vogliano gli uomini che un giorno la pace abbia eco “in noi e fuori di noi “’.> (da Demone e mito, Carteggio Jesi-Kerenyi 1964-1968, Quodlibet, Macerata, 1999, p.118).
Nell’ultima lettera che il giovane mitologo torinese mandò a Károly Kerényi, noto studioso ungherese allora oramai anziano, viene redarguito del suo interlocutore su un saggio riguardante lui e la sua teoria del mito. In esso viene criticata la concezione del mito come di un quid che porta l’uomo in una dimensione extratemporale ed assoluta. Il loro rapporto epistolare termina con questa incomprensione di fondo. Da qui l’amara constatazione di Jesi della venuta futura di un conflitto che porterà chi è legato intimamente ad una lotta assai concreta e triste, che da lì a poco accadrà, come un’assurda profezia. Di qui l’augurio di un risolvimento che sia innanzitutto interiore, per poi farsi realtà quotidiana:
Candido cielo, gabbia muta, a sera
chiudono gli alti giunchi su di noi;
forse s’imbiancherà la prigione se la luna verrà.
Ma nell’ombra
vicino alle acque ferme, stesi a terra,
sentiamo il freddo che giunge quieto
dal profondo, come da un fontanile silenzioso
sgorgasse a noi puro e chiaro.
Così soltanto, la dimora e morti
si mostra di lontano, gelida e luminosa,
inabissata stella.
[…]
E camminasti al destino
senza mutare passo, senza stringer le labbra,
calasti nel freddo
come si smonta da cavallo.
[…]
cavalcasti lontano
su terra rossa e sui sassi
calcinati dal sole.
Ma qui, nella città chiusa,
hai dovuto tornare a morire,
e qui ti hanno calato
giù nel campo dei morti.
Tu non resti laggiù; si potrebbe
levare la pietra
scolpita col nome e l’insegna.
Ma nella casa dei morti
non più ti riconosci, e il tuo volto
né il mio volto tu sai.
Solo negli umili specchi
della casa dei vivi, il tuo viso
credo di trovare nel mio per fuggevoli giorni.
Ma è solo un riflesso sull’acqua, un fuoco
nell’alta notte.
Dopo aver letto questa poesia, come adentrandosi nell’oscurità di una discesa, nel gurgite vasto del mito, nella storia, nell’amore e nel suo ricordo, ci si potrà infine rivolgere alla volta del cielo, come Jesi rileggendo questo passo di Pascoli, da Il ritratto:
Nella via sola, dopo il soprassalto
di pianto, tutti quattro, orfani già,
guardammo ancora. E poi guardammo in alto
cader le stelle nell’oscurità.
Furio Jesi, professore di Letteratura tedesca nell’Università di Palermo, ha pubblicato tra l’altro Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del Novecenteo (1967), Letteratura e mito (1968), Rilke (Il Castoro, 1971), Mann (1972), Mitologie intorno all’Illuminismo (1972), Il mito (1973), Esoterismo e linguaggio mitologico: studi su Reiner M. Rilke (1976), Materiali mitologici: umanesimo e antropologia nella Mittel Europa (1976), Cultura di destra (Garzanti, 1979). Tra i volumi usciti postumi si ricordano Spartakus, Simbologia della rivolta (2000) e, per i tipi di Quodlibet, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud (già pubblicato su rivista nel 1972).
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