Alchimia del dolore

ELZEVIRO - Viaggio sull'orlo della malinconia tra cinema e letteratura

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Giandomenico-Cicchetti  di Giandomenico Cicchetti

Durante la presentazione del suo film Melancholia, il regista Lars Von Trier sconvolgeva la platea dei giornalisti con due provocazioni ardite e grottesche: tra gli imbarazzati tentativi di dissuaderlo di Kirsten Dust e la rassegnazione attonita di Charlotte Gainsbourg, si dichiarava un nazista e progettava di girare un porno. Von Trier aveva già trasposto la sua personale conoscenza della depressione nel suo precedente film, Antichrist, storia di una terapia fallita, in cui il dolore furioso della protagonista non viene superato in alcun modo: la donna finisce col torturare il marito, un analista che tenta di curarla, e con l’attentare alla vita dell’uomo, che per difendersi dall’inaudita violenza, dalle atroci crudeltà a cui la moglie viene spinta dalla sua mente delirante, si vedrà costretto ad ucciderla con le proprie mani. Antichrist è dunque la storia di una patologia che non può essere debellata, e questa malattia è la stessa che Gadda chiama “il male oscuro”, definizione che Berto riprenderà e impiegherà come titolo di uno dei suoi più importanti scritti.

La malinconia, come qualsiasi altra dipendenza, implica un’alterazione dello stato di coscienza. Il Bardamu di Céline che, colto da febbre malarica Melancholia-poster-002-650x488   durante il suo soggiorno in Africa, afferma che ognuno si inebria come può; il Meursault di Camus che reagisce con un’alzata di spalle alle vicissitudini giudiziarie che lo vedono fortuito omicida; il Kirillov di Dostoevskij che per tutta la notte rimane sveglio a bere tè, camminando avanti e dietro per la casa e meditando il suicidio come eroico gesto traverso cui giungere al supremo arbitrio e alla divinizzazione dell’individuo; il Levin di Tolstoj che si inebria di misticismi derivanti  dalle sue laiche teologie, o ancora il suo Pierre Bezuchov che (al pari di quanto dichiara Jack London nel libro autobiografico John Barleycorn. Memorie alcoliche) beve continuamente per meglio sopportare il peso del lerciume, della stupidità, della tristezza di tutto ciò che lo circonda; il Duluoz di Kerouac, perennemente in balia alla smania di partire, di viaggiare attraverso la vita per sondarne i meandri labirintici e lasciarsi alle spalle la malinconia; il Davide Segre della Morante che, assunte innumerevoli e svariate sostanze psicotrope, in un’osteria brinda con una sonora e compiaciuta bestemmia dopo aver dichiarato che la storia non è che un’enorme oscenità; il personaggio che ne Le stelle fredde di Guido Piovene comunica coi morti, soggetti nell’al di là ad ulteriore morte per svanimento, senza alcuna considerazione di meriti e azioni turpi commessi in vita, in un mondo dove non ci può essere esistenza degna d’essere vissuta né in questa vita né in quell’altra: quello che accomuna questi personaggi così distanti tra loro è la percezione distorta che essi hanno degli eventi esterni, degli accadimenti mondani quotidiani o delle vicende fantastiche in cui si trovano coinvolti.

Si afferma comunemente che il più alto grado di tossicodipendenza è connotato dalla completa discrepanza tra gli avvenimenti reali ed il comportamento del tossico. Anche la malinconia può misurare il suo stadio attraverso il rapporto intercorrente tra il malinconico ed il mondo che lo circonda. Il malinconico cronico, anche nelle circostanze più felici, troverà un pretesto per rifugiarsi nel suo anfratto di personale grigiore: Dante, infatti, fa dire agli accidiosi immersi nella melma dello Stige: <<tristi fummo/ne l’aere dolce che dal sol s’allegra>>. Persino la compiacenza e l’ostentazione della dipendenza accomunano il malinconico e colui che fa uso di sostanze atte ad alterare il normale stato di coscienza. Il malinconico, colto vittima dei suoi malumori, prova lo stesso compiacimento e, a un tempo, lo stesso avvilimento, che si prova ad esser scoperti in preda all’influsso di tali sostanze.

Il pretesto che il malinconico adopera per catapultarsi nell’umore prediletto, è una semplice modalità che gli consente di arrivare allo stato d’animo predestinato: al pari del trampolino per il tuffatore, che con rocamboleschi contorcimenti si immerge nel grembo acqueo della vasca: il malinconico piega la realtà al suo umore, la distorce con lenti tetre, è il virtuoso per eccellenza dei contorcimenti del fallimento e dell’umiliazione, un inverso Re Mida, diceva Baudelaire in Alchimia del dolore, che trasforma ogni paradiso in inferno, basti pensare a due illustri malinconici dello scorso secolo, Ian Curtis e Kurt Cobain, suicidatisi all’apice del loro straordinario successo. Entrambe le rockstar lamentavano di essere apatici, indifferenti al  male da cui erano travolti: I’m ashamed of the things I’ve been put through/ I’m ashamed of the person I am, scriveva Curtis in Isolation; Broken heart and broken bones/Think of how a castred horse could feels, scriveva Cobain in una canzone chiamata I hate myself and I want to die.

dyn006_original_527_736_pjpeg_2500099_37f14ad07b0766fe3fdd28abb1da9732-465x650   Se è vero che la malinconia si associa all’ira, alla propensione irrefrenabile all’invettiva contro chiunque e contro qualsiasi cosa, alle manie di persecuzione come reazione al sentirsi inadeguati nei confronti di chiunque e di qualsiasi cosa, è pur vero che talora il malinconico, al contrario, cade vittima del più completo languore e si abbandona senza proteste alla sua disperata condizione, in un’accettazione che equivale ad una resa: Céline contro Tondelli, Voyage au bout de la nuit contro Camere separate, l’artista plasma ogni istanza contenutistica e la offre al lettore sotto le spoglie dello stile, e la differente malinconia dei due artisti diventa una differenza anzitutto formale: lo stile nevrotico e frammentario di Céline, sconclusionato, aggressivo, i fuochi d’artificio sintattici che puntualmente accompagnano lo scoppio di tutte le sue invettive più incendiarie; la pacata rassegnazione della paratassi regolare di Camere Separate, la malinconia che emerge dalla musicalità di ogni periodo, triste prosodia mortifera, la struttura intrecciata con sapienza e simmetria dei tre movimenti dell’opera, senza guizzi esplosivi o mirabolanti sbalzi stilistici: l’assenza di pulsioni di chi si arrende ed è consapevole di essere imbarcato verso la propria morte, come appunto è il protagonista nella scena finale del romanzo. Pensiamo, in proposito, ad un altro grande personaggio malinconico della letteratura novecentesca, il Septimus Warren Smith della Woolf che, dopo aver passato i suoi giorni a cercare il senso e la bellezza della vita, perde il suo migliore amico in guerra e si sente in colpa per non averne sofferto abbastanza, così dichiara che la lezione che i poeti e le generazioni si tramandando è l’odio e la bruttura, che nient’altro esiste al mondo: incomincia a tormentarsi, si rimprovera continuamente di non provare più niente, nessun’emozione, e finisce per suicidarsi. Anche Guido Piovene, nel romanzo sopra citato, scriveva che i dolori più grandi sono quelli che non si sentono, perché arrivano così in fondo da annientare perfino la capacità di sentirli.

Oltre che ira e rassegnazione, la malinconia è soprattutto vivere anticipatamente la morte. Il malinconico è un esploratore del regno di Thanatos, per questo è un inetto in vita e finisce col disprezzarsi. Da qui scaturisce la sua somma colpa: l’incapacità d’amare e di essere amato. “Ama il prossimo tuo  come te stesso”: chi non ama sé stesso è incapace d’amore, chi non sa desiderare per sé il bene è incapace di compiere il bene all’altro. Il malinconico è volubile, non sa cosa desiderare, tutto per lui è eguale perché tutto conduce allo stesso risultato umorale.  Il giorno prima si esalta, gioisce istericamente di qualcosa, il giorno dopo s’incupisce, sovverte immotivatamente il suo punto di vista, perviene nuovamente all’umore prediletto; se si impegna in qualcosa e giunge al massimo risultato, è solo per arrendersi e mandarla in malora, così da poter rimpiangere ciò che ha perso, sentendosi in colpa, accusandosene e disprezzandosi, e raggiungendo di nuovo l’umore prediletto; altre volte si sente impotente, tutto ciò che gli accade è colpa degli altri, del destino, del mondo, del caso, della vita, pensa a sé stesso e, come Leopardi, si chiede: <<qual fallo mai, qual sì nefando eccesso/macchiommi anzi il natal, onde sì torvo/il ciel mi fosse e di fortuna il volto?>>, eppure non fa nulla per rispondersi e per cambiare la sua situazione, così l’assale il suo umore prediletto, e a quel punto, come Gozzano, pensa: <<ah! veramente non so cosa/più triste che non essere più triste>>. Questo atteggiamento può condurre a due risultati opposti: il vizio e la completa astensione:1963.preview    Gadda contro Kerouac: La cognizione del dolore contro Big Sure: l’isolamento, l’incapacità e la mancanza di volontà di relazionarsi agli altri e ai cosiddetti piaceri della vita, il rinchiudersi in un proprio sistema di pensiero, la critica feroce a chiunque e a qualsiasi cosa: inutile provare esperienze da cui non si può trarre che dolore; dall’altro lato la frenesia d’amicizie e d’amore, la smania di compiere il maggior numero di esperienze possibili, di conoscere la vita in tutti i suoi aspetti, mondani e trascendenti, squallidi e meravigliosi, angelici e demoniaci: provare tutto ciò che può far fuggire dal dolore.  In fondo anche l’astensione è un vizio, un vizio al negativo, che si risolve nella negazione del piacere; e il vizio è pur’esso una forma d’astensione: l’astensione dal piacere della virtù. Tutto ciò non può non ricondurci all’uomo del sottosuolo, magistrale ed impareggiabile intuizione dostoevskijana, l’uomo negativo, abilissimo confutatore in grado di rigirare a suo piacimento, grazie a brillanti espedienti retorici, ogni argomentazione senza giungere a nessuna conclusione, senza condannare né approvare niente, senza distinguere bene e male, senza riuscire a ricondurre ad un elemento che connoti in positivo o in negativo la propria persona. Non è forse stato troppo clemente Dante ad assegnare ai suoi malinconici una pena così blanda? Il malinconico è traditore non solo della dimensione temporale e di quella spirituale, è il traditore della vita intesa come valore e non ha rispetto di niente, tenendo tutto in eguale e disdegnosa considerazione, partendo da sé medesimo e giungendo a tutto ciò che ci possa essere di più alto e meritevole.

Il malinconico, privo dell’amore, cammina solitario sull’orlo del vuoto, vi guarda dentro per carpirne il segreto, non si ritrae davanti all’orrore dell’abisso ma lo porta negli occhi con cui osserva il mondo ogni giorno, egli osserva la foglia secca che si sgretola sotto il suo passo, il sole che fa rilucere i granelli sabbiosi della battigia, lo sguardo triste e rassegnato di una vecchia signora immobile alla finestra, l’identico squallore dei pulciosi mendici e dei medici lindi: osserva e vede ovunque i segni dell’orrore, ovunque deformi mostruosità iperboliche: è questo il suo privilegio, questo il suo supplizio.



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