di Gabor Bonifazi
Si può scoprire e riscoprire una cittadina come Treja, aggirandosi senza una meta precisa per strade e piazze alla ricerca del mistero che è di fronte a noi e di cui qualcuno ci ha voluto lasciare la presenza nella pietra e nelle lapidi. Prendiamo ad esempio quel varolo (spigola) mutilo di pinne murato nei pressi di Porta Cassera, che ancora funge da insegna della sottostante pescheria o quella lapide che narra di Ageo Arcangeli i cui fasci, vituperati dalla damnatio memoriae, vennero ricollocati al tempo della sindacatura di Fabiano Valenti o, sempre lungo corso Italia libera, la ruota degli esposti. Molto misteriosa è anche l’epigrafe che tale B Altinus ha lasciato incisa sul portale in pietra incancrenito, Ex Industria, per dirci che aveva fatto la sua fortuna con il proprio lavoro. Lavoro che probabilmente, visto il compasso sullo stemma, era quello di agrimensore.
Un metodo di approccio è seguire la gente ed ascoltarla, immedesimarsi in essa, cercare nel dialetto, nel modo di usare la piazza o nel cibo una chiave che ci consenta di cogliere la relazione tra uomini e cose che si perpetua nella vita quotidiana. Visitare un mercato, un mercato qualsiasi, aperto o chiuso, del pesce o delle erbe è proprio un buon inizio. Si potrà cogliere la specificità dei prodotti e constatare che nelle ore di punta un mercato diventa un centro di relazioni che sono soprattutto spostamenti di persone ma che, dove la città ha una sua storia, si è tradotto anche in tessuto edilizio, in un insieme indivisibile cioè di strade e piazze, ciascuna delle quali è un luogo, ha un nome, è parte di un vissuto collettivo. In questi vagabondaggi è importante non stare sempre con gli occhi puntati a cogliere le immagini convenzionali dello spazio urbano, bisogna guardare anche in alto e in basso: in alto verso quella variabile striscia di cielo che conclude lo spazio delle strade e in basso le sempre diverse pavimentazioni stradali, importanti per definire il valore ambientale attraverso un insieme di sensazioni tattili, visive, sonore.
Molto spesso vale più la tessitura di un selciato o una pescheria che le immagini di un monumento famoso a rievocarci intensamente, fisicamente, il significato segreto di una città e certe pagine proustiane di Dolores Prato su Treja lo hanno dimostrato con straordinario rigore. “Dio, com’era bella la Pescheria! Una scala larga e lunga che pareva dovesse scendere al centro della terra e invece arrivava in uno stanzone immenso, conserva di luce ferma per pesci immobili. I mezzi finestroni rotondi sotto il soffitto, che di fuori erano più su del livello di terra, con gli alberi delle Mura a ridosso, con vetri verdognoli piuttosto sporchi, facevano del locale un acquario. “C’è la lasca, lasca fresca, a pochi soldi”. Quando si sentiva questo grido Eugenia via per la Pescheria ed io con lei. Non era una porta, era una grande apertura larga come la lunghissima scala sempre bagnata e viscida.
Mentre scendevo vedevo già tutto lo stanzone grande come una piazza provvista di tetto, pieno di banchette di pesce, di venditori e compratori che scarpettavano attorno. In quella luce sottomarina ero subito immersa in una strana risonanza di vuoto come se il vuoto sonasse ed i rumori fossero echi lontani di se stessi. Sui banchi inclinati, in cassette ben ordinate, stavano i pesci immobili, dentro ceste il groviglio di quelli ancora vivi e le concole che maneggiandole parevano sassi. A casa nostra non comparve mai qualcosa che si chiamasse lasca; si alternavano merluzzi, seppie, panocchie, roscioli.
Rosciolo! Parola che era colore mescolato a luce perchè essendo pesce, il corallo delle squame diventava luminoso. Quando fui lontana da Treja seppi che sii chiamavano triglie: spenta la luce, spento il colore. Dicendo triglia non si dice nulla, tutt’al più si pensa al suo occhio, ma dire roscioli è vedere pesci inguainati da scaglie coralline. Avvolti in un impasto di pan grattato, erbetta trita ad olio, si cuocevano sulla graticola. Cercavo di non vedere i pesci che stavano lottando per cercare di non finire di morire; anche le concole erano vive, ma stavano chiuse come sassi per tenersi dentro la vita, morivano in cucina: le buttavano dentro una padella già rovente e le mettevano sul fuoco; scottate, asfissiate, a poco a poco lasciavano la presa, cedevano alla morte e si aprivano buttando fuori un condensato di acqua marina. Confusa tra gli ovattati movimenti della gente e il suono strano che laggiù avevano voci e rumori, nell’aria di un freddo algoso, nella luce verdognola dell’immenso stanzone, finivo con essere confusa. Risalendo ed uscendo tornava l’aria tiepida, la luce normale, le voci ed i suoni di sempre”. (D. PRATO, Le Mura di Treja ed altri frammenti, Pollenza, 1992, pp. 85-86).
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Ma che riflessioni interessanti, architetto! Così ci insegna a “leggere l’architettura” à la façon di Paolo Portoghesi…
Una dozzina di anni fa a Treja (una delle più belle cittadine delle Marche) venne negata una bandierina arancione in quanto il serbatoio idro pensile deturpava lo sky-line
Incredibile! Certo che queste bandiere arancioni vengono assegnate senza senso. Una città come Treia la merita proprio. Cosa si potrebbe fare per richiederla?