di Filippo Davoli
Una notizia bellissima e incoraggiante. Il Colle dell’Infinito è salvo. Siamo in controtendenza piena: i privati che rinunciano al diritto di costruire, le istituzioni che salvaguardano il preziosissimo colle leopardiano… Mi verrebbe da chiedermi perché Leopardi non è nato a Macerata! Chissà quante belle colline avremmo potuto salvare dal cemento… Oddio, capiamoci, dobbiamo porci egualmente due questioni: 1. Leopardi avrebbe scritto “L’Infinito” a fronte di qualunque scenario reale, perché il suo guardare – come ricordiamo bene – era quello della poesia; 2. Mi riesce complicato credere che i nostri privati avrebbero rinunciato al diritto di costruire… Sta di fatto, tuttavia, che siccome nessuno di noi è Leopardi, la progressiva perdita di poesia nel mondo può essere efficacemente contrastata sia pure da una goccia nel mare, come può esserla questa notizia che preserva il Colle dell’Infinito dall’ennesimo scempio edilizio.
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Nessuno di noi è Leopardi. “Era meglio quand’era peggio”, dice spesso mia zia (forse è l’unica cosa saggia che le ho sentito pronunciare in tutta la vita). E davvero mi chiedo perché sia possibile – ma è proprio così… – che il nostro presente abbia categorie valoriali che funzionano, che si reggono, solamente evitando con ogni cura il confronto con quelle del passato. E questo in tutti gli ambiti: dalla televisione alle canzoni, dal teatro alla letteratura, dalla politica alla comicità, da Roma a Macerata… Non c’è più Leopardi. Chiamato però in causa dai sodali letterari di questa nostra terra, devo precisare pure che l’ipoteca leopardiana è più di costume che reale: la poesia marchigiana contemporanea guarda semmai più a Milano (Sereni in primis…) o a Firenze (Luzi, Bigongiari…) che a Recanati: però l’approccio alle cose della cultura e dell’arte; il necessario pudore e lo studio (se non “matto e disperatissimo”, almeno responsabile, continuativo) sono in caduta verticale, fatte poche eccezioni. Va più di moda la performance, la kermesse, la lettura pubblica, l’aperitivo, il gruppo di pressione, la generazione, lo show. In questo senso sicuramente Leopardi non c’è più. E forse anche per questo c’è un pretesto in più per non salvare colli, valli, fiumi e giardini.
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C’è tuttavia un giardino (sia pure circondato da edifici un po’ a scatolone, ma pazienza…) dove mi capita spesso di andare a ricrearmi: è il cimitero. Il perimetro storico del nostro cimitero maceratese è delizioso. Al suo interno riposano mio padre e mio zio; e poi amici cari della mia giovinezza, che vado a salutare: uno dei primi che visito è Don Umberto Canullo, la cui foto in bianchennero non rende i luminosissimi occhi azzurri che aveva; quindi è la volta di Remo Pagnanelli, che se fosse ancora vivo sarebbe sicuramente sdegnato ai massimi livelli – ricordando bene quanto fosse il suo rigore già allora; e poi la famiglia Buldorini (Ermete padre; Ermete jr., il musicista futurista; Mario, l’alimentarista delle “Ricette d’Ermete”; Rita, moglie di Ermete jr., che era alimentarista di professione e soprano di elezione, sia pure in segreto, e sembrava M.me Butterfly; e Margherita, sorella di Ermete jr. e Mario… mi raccontavano che, tornati a casa dopo la chiusura serale del negozio, il relax era Mimì al piano che suonava le romanze, Rita vicina a lui che le cantava, e tutti e quattro, dopo, che ne parlavano insieme: altri tempi, non c’è che dire…); e come non passare davanti a quel prete che s’è scritto la lapide in versi in dialetto, di cui non ricordo il nome?
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Quanti volti conosciuti che incontravamo in piazza, tra le 18 e le 20, me li ritrovo qui: li avrei detti a lavorare fuori, ne avevo perso le tracce, me ne viene un sobbalzo a riconoscerli di colpo, un tuffo al cuore: ad ogni apparir di foto, c’è tutto un mondo che si riattiva, la celeberrima “corrispondenza d’amorosi sensi”, che se da un lato accende dentro una terribile sorpresa o una delicata ma tenace malinconia, dall’altro ricorda – e fa molto bene a farlo – che tutto passa, grazie a Dio. E noi pure passiamo. Il mio assillo maggiore è tentare, per come possibile, di ricordare la voce di quelli che ho conosciuto, i tic, certi modi di fare, qualche battuta… (è una fissazione proporzionale alla curiosità circa la voce di chi invece non ho conosciuto e di cui la storia non aveva gli strumenti per fissarla: la voce di Gesù, per esempio; o quella di Carlo Magno o di Don Bosco, etc). Se rifletto che nei libri di storia sono narrati eventi di persone in carne ed ossa che hanno avuto un’intimità, una consuetudine con altri fatta anche di piccole cose, toccando le pietre di alcuni scavi archeologici o i muri delle città a me pare di annullare i secoli e di poterli toccare come se fossero ancora qui. Loro, ma anche quelli che nei libri non ci sono mai finiti: casalinghe, negozianti, vecchi, muratori… le ombre non della storia ma della cronaca, i volti senza nome, che peraltro hanno permesso col loro esserci che vi fossero quegli altri volti con il nome, e così via. Ora, se tanto (o poco, ma più di niente) riesco a fare io, penso che i bambini delle scuole, più che adottare monumenti di pietra, dovrebbero adottare monumenti viventi: i loro nonni, i vecchi della casa di riposo, gente che, ultima, ricorda un tempo che è già lontano e di cui può fornire testimonianza meglio di qualunque libro. E filmarli, tenere da conto le bobine, salvarle sugli strumenti più aggiornati per poterle trasmettere a loro volta, quando sarà il momento. Sarebbe una grande lezione di civiltà.
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Io passo, passerò, sto passando. Ed è bello, oltre che giusto, che sia così. Non tornerei mai indietro. Penso che invecchiare sia bellissimo, che abbia un suo retrogusto molto dolce. E la possibilità di uno sguardo che si amplifica, mentre si semplifica. E arrivare a destinazione (con anche la bella fortuna di non dover mai più pagare le tasse, dopo averlo fatto – io e pochi altri – per tutta la vita) non è poi una prospettiva così disdicevole! Mi spiace solo che quelli della mia generazione (i nati negli anni ’60) siano stati saltati in pieno… Avremmo potuto dare molto, credo. Ma stiamo già arrivando all’età pensionabile e veniamo considerati come quelli che è giunta l’ora debbano farsi da parte (mentre i geronti, che ci hanno impedito con tutte le forze di cominciare a prendere parte a qualcosa, rimangono saldi e aggrappati mani e piedi ai loro scranni ultracinquantennali; e “i poco più che adolescenti” sgomitano).
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C’è un libro di Paolo Ruffilli, poeta e caro amico, che si intitola “La gioia e il lutto”: è un libro importante, la cui tesi centrale è che quando si inceppa un ingranaggio e non si dà il ricambio generazionale, il mondo è già morto, già finito. È il nostro tempo, dove – a un rampantismo senza precedenti da parte degli under 40 – fa eco una saldissima e coriacea tenuta degli elefanti. La lotta soltanto apparente tra quelli del ’68 e quelli del ’77 riuscì a impedire – molto realmente – che fosse il turno di quelli della mia età: abbiamo rispettato i tempi, abbiamo onorato i padri, ci siamo inventati giorno dopo giorno, perché educati a doverci barcamenare da soli (non credo che tra di noi fossero molti quelli che venivano accompagnati e tutelati sempre e comunque dai genitori…). Siamo sopravvissuti e anche bene, devo dire. Ma certo non si può dire altrettanto che vi siano state per noi le stesse premure che – sia pure solo nominalmente – vengono messe in campo per quelli che vengono dopo di noi (ad esempio, ricordo benissimo il giorno in cui il Governo inventò la Legge sull’assunzione d’apprendistato valida fino al compimento del 26esimo anno di età: sorprendentemente venne promulgata quando noi ne avevamo già almeno 27…); quando verosimilmente era arrivato il nostro tempo, cioè, abbiamo scoperto che agli occhi degli altri eravamo già fuori tempo massimo e dovevamo farci da parte. Perché nel frattempo gli elefanti, sentendo il tempo sfuggirgli di mano (ma non la pervicacia…), hanno avvertito se non altro l’esigenza di un erede, andandoselo però a scegliere tra i neonati o poco più. Una sterzata a 180° che consentisse al loro specchio di lodare il recupero della propria verginità, senza tutto sommato scalfire più di tanto la propria postazione.
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È quanto accaduto a Jean Paul Sartre, nell’esperienza con sua madre e suo nonno (leggasi il bellissimo “Le parole” di questo filosofo): un nonno autoritario, maltrattatore sistematico della figlia, che poi in vecchiaia, indebolendo, si invaghisce idealmente del nipotino a cui concede tutto, viziandolo oltre misura. Quell’esperienza non è una metafora, ma sorprendentemente – applicata al periodo – la diventa; in maniera imbarazzante. L’unica differenza è che Sartre provava dispiacere per sua madre. Nel nostro caso, nisba…
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Il problema è se i giovani che arrivano dopo sono – dentro – vecchi come i vecchi che, standoci ancora, c’erano da prima (i quali, però, almeno una volta sono stati giovani davvero). Se accade questo, il meccanismo è bello che incistato, l’ingranaggio inceppato, con buona pace delle anagrafi. Si può fare qualcosa per invertire la rotta? Temo di no. Io perlomeno non credo che lo ricorderò: e tutto sommato non è che a me cambi qualcosa o che la situazione com’è arrechi chissà quale nocumento: da dietro le lapidi, dall’altro Cielo, gli amici che dicevo suggeriscono di pensare a ciò che non passa: conviene cioè tenersi la storia che ci è toccata in sorte e viverla con rettitudine di cuore, al meglio che si può.
filippo.davoli@gmail.com
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la voce di chi invece non ho conosciuto e di cui la storia non aveva gli strumenti per fissarla: la voce di Gesù, per esempio
Filippo, Filippo….
Ma cosa stai dicendo?
E non dovrei certo essere io a ricordartelo, ma dicono che lui è sempre dentro in ciascuno di noi e sempre ci parla…
Non è che ultimamente, forse, non riesci più ad ascoltarlo??
😛
(per il resto bellissimo intervento)
Intendevo la voce storica di Gesù, quella terrena. L’ascolto dell’altra parrebbe più un problema tuo che mio…
😉