di Maurizio Verdenelli
Benito Mussolini che aveva tentato fino all’ultimo di fare il maestro elementare presentando domanda (l’ultima, respinta) a Tolentino, aveva nel Maceratese due grandi amici. Morti giovani, ai quali per riconoscenza aveva poi un unico omaggio particolare. Dedicando alla loro memoria il nome delle due città dov’erano nati a pochi chilometri l’una dall’altra. A Filippo Corridoni: Corridonia e a Nicola Bonservizi: Urbisaglia-Bonservizi.
Due destini incrociati eppure profondamente divergenti dallo snodo del fascismo: morto a 18 anni, il sindacalista ‘Pippo’, nato tre anni prima (1887) del conterraneo Nicola, è ancora giustamente nella storia e il suo nome è ricordato ancora in quello del paese che si chiamò prima Montolmo, poi Pausula. La denominazione Urbisaglia-Bonservizi è invece durata un ventennio, giusto il periodo del regime, dal 1925 al ’45 e la città di Lucio Flavio Silva Nonio Basso, il comandante romano che espugnò Masada quattro anni dopo la caduta di Gerusalemme, è tornata al suo antico nome (Urbs Salviae, città della salute, già capoluogo della V Regio, le Marche).
Urbisaglia, tra l’altro, città fiera e simbolo della resistenza avendo dati i natali ad Augusto Pantanetti comandante del gruppo delle bande Nicolò, protagonista della liberazione di Macerata, non avrebbe certo potuto affrontare un minuto di più l’affronto di ricordare uno dei simboli del fascismo, amico personale del Duce. Su Nicola Bonservizi morto a 33 anni, fascista moderato, cultore della pace, ucciso da un cameriere anarchico in un ristorante della ‘Ville Lumiere’ dov’era a cena, il giovane Ernesto Bonomini nel febbraio 1924, è sceso un assoluto silenzio.
Eppure fu il più noto giornalista marchigiano dell’epoca (a fianco di Mussolini uscito dal Psi nella rivista ‘L’Utopia’), dirigendo la redazione parigina de ‘Il Popolo d’Italia’ ed avendo fondato il periodico Italie Nouvelle, cui aveva chiamato a collaborare un futuro candidato Premio Nobel per la Letteratura: Giuseppe Ungaretti. Soprattutto il suo caso fu al crocevia di eventi che segnarono la presa di potere fascista. Il riferimento è al caso Matteotti, scoppiato nel giugno, appena quattro mesi più tardi dalla morte dell’urbisalviense.
Il nome di Bonservizi venne usato per un depistaggio in piena regola da parte di Amerigo Dumini, il capo del commando che sequestrò ed uccise il deputato socialista pronto a far saltare, documenti alla mano, il coperchio della vicenda Sinclair Oil: ai finanziamenti americani al nascente regime fascista in cambio di concessioni petrolifere in Emilia-Romagna e Sicilia. Un’autentica vittima di ‘trame nere’ dove la colomba marchigiana fu vittima dall’ala oltranzista fascista che meditava addirittura di sostituire Mussolini con Gabriele D’Annunzio. Vittima due volte, la figura di Bonservizi non fu recuperata dalla storiografia post bellica. Nessuno ne aveva chiaramente interesse.
“Neppure a casa, mia madre e mia zia che erano legate direttamente a Nicola, fratello di mio nonno, non ne parlavamo mai. Era un episodio così doloroso, una ferita troppo aperta, un’ingiustizia chiara per risollevarla ancora seppure solo all’interno della famiglia Bonservizi” dice il dottor Giovanni Cecchi, figlio dell’indimenticabile professor Dante, deceduto l’estate scorsa. Il professor Cecchi è stato uno dei protagonisti più importanti della Macerata del dopoguerra: per molti anni amministratore comunale, docente universitario, scrittore, presidente della Cassa di Risparmio. Durante il processo di Chieti –‘città alla camomilla’ così com’era stata definita dall’inviato del Resto del Carlino- si tentò di avvalorare la tesi che Giacomo Matteotti fosse stato prelevato dal ‘commando’ del Dumini perché doveva essere interrogato sull’assassinio del giornalista marchigiano. E che l’uccisione del deputato (che non si sarebbe voluta, al massimo una bastonatura ed olio di ricino…) fosse avvenuta involontariamente durante ‘l’interrogatorio’. Ed era stata prodotta una lettera firmata dal Dumini, invia-ta al Bonservizi in cui si attestava testualmente “Attento, Nicola, soprattutto dal Matteotti”. Tuttavia i familiari del giornalista, che erano stati a Parigi a visitare il congiunto in ospedale (ferito il 20 febbraio sarebbe deceduto sei giorni più tardi) e che avevano pure parlato con lui delle possibili ragioni dell’agguato, non ne avevano saputo nulla. “E questo dissero agli inquirenti” aggiunge il dottor Cecchi.
L’ipotesi, in realtà un depistaggio per nascondere una probabilissima resa di conti tra falchi e colombe tra i fascisti in Francia, era stata ‘rivelata’ nel settembre dello stesso 1924 da Curzio Suckert, direttore della rivista “La conquista dello Stato” sulla base di informative ricevute la sera della scomparsa di Matteotti da parte della Ceka del Viminale, un gruppo segreto agli ordini del Pnf, finanziata dall’ufficio stampa della presidenza del consiglio. I due delitti, a detta di Sucker, erano legati insieme. Purtroppo Bonservizi non aveva tenuto conto del ‘prezioso’ avvertimento di Dumini. Il quale, agente provocatore, era in missione a Parigi. Dove si trovava pure Curzio Malaparte. Che secondo un quotidiano francese (querelato e condannato) sarebbe stato al centro del complotto, di ‘trame nere’ che condussero al mortale attentato. Da parte di Ernesto Bonomini che, vigilantissimo dalla Ceka, decide stranamente, fra tanti ‘falchi’ pronti al complotto contro il duce divenuto ai loro occhi ‘moderato’ (il patto di pacificazione col Psi, nel ‘21 e il tentativo di mettere fuori gioco l’ala ‘militare‘ del Pnf) di far fuori il marchigiano, amico personale dello stesso Mussolini. Bonomini, minorenne “carattere senza energia, ha davvero agito da solo? Alcuni lo hanno visto insieme con stranieri dall’accento toscano (Dumini è di padre fiorentino), mai identificati” scrive Maurizio Serra in ‘Malaparte, vita e leggende’. Sarà condannato ad otto anni di lavori forzati.
Bonservizi verrà ricordato nell’elogio funebre da Mussolini e il duca Melzi d’Eril ne ricordò pubblicamente “lo spirito di carità”. In fondo il giornalista nato ad Urbisaglia era un convinto assertore della pace, un progetto, scrive “necessario, indispensabile”. E su un tema ancora di stretta attualità: la dignità internazionale del Paese che diventa difficile da affermare “se non ci adoperiamo a far trionfare la pace”. L’assassinio di Matteotti, in tutto quel 1924, incendiò l’Italia, prima che il paese imboccasse il lungo tunnel della dittatura. Ricorda Vittorio Emiliani, scrittore e giornalista (è stato inviato al ‘Giorno’, direttore del ‘Messaggero’ e nel Cda della Rai che ha pure presieduto): “All’università di Pavia c’è un giovane assistente di Benvenuto Griziotti, docente di Scienze delle Finanze, che guida la delegazione socialista nel Comitato di agitazione costituito dopo il delitto Matteotti. Battendosi contro la penetrazione dei fascisti nell’Asup (Associazione studenti universitari pavesi) e per tutto questo si guadagna – come ha lasciato scritto lo stesso Griziotti – la fama di sovversivo ed una schedatura presso la polizia che lo seguì fino al termine della dittatura procurandogli non pochi ostacoli alla carriera universitaria”. Quest’uomo –che sarebbe stato bocciato per quel suo essere antifascista all’università di Camerino al concorso per la docenza di Scienze delle Finanze (leggi l’articolo), si chiama: Ezio Vanoni. Un ‘eroe’ insieme con l’amico fraterno Enrico Mattei, dell’Italia della rinascita: di loro si parlerà mercoledì all’università di Macerata (leggi l’articolo).
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veramente Ungaretti il Nobel non l’ha vinto mai…
Non lo vinse per un pelo, il premio andò invece a Quasimodo:
http://www.unita.it/culture/nobel-negato-ad-ungaretti-laquo-poeta-dell-039-era-fascista-raquo-1.11136
mmmh…. personaggetti meschinelli e ingloriosi:il volume ‘Giuseppe Ungaretti – Jean Lescure. Carteggio (1951-1966)’ contiene le lettere scambiate tra il poeta e il suo principale traduttore francese, dove uno dei temi più ricorrenti per anni è la candidatura al Nobel e l’insistente ricerca di sostegno tra i grandi nomi della letteratura internazionale per la conquista del premio di Stoccolma.
Nella lettera dell’autunno 1959, Ungaretti contestava con durezza l’incoronazione di Quasimodo, smontando i suoi meriti, letterari e civili, e deplorava un documentato scambio di attenzioni tra il vincitore e membri della giuria. All’amico francese che aveva curato la mobilitazione internazionale attorno al nome di Ungaretti, il poeta faceva osservare che Quasimodo non solo aveva collaborato con le riviste fasciste ma aveva anche scritto un inno per i martiri fascisti, dal titolo ‘Coro di morti della rivoluzione’ (1933), e che i suoi poemi sulla Resistenza vennero scritti ”dopo la fine della Resistenza, molto tempo dopo, perché era la moda”. Senza contare che Quasimodo, scriveva Ungaretti, ”fu fatto professore, cosa che io ho letto nei giornali, dal governo Mussolini quando Mussolini si trovava già a Salò con il suo governo di guerra civile, dopo il colpo di stato contro di lui, nel 1944”. Ma questo è un dato biografico non vero, perché in realtà, osserva Rosario Gennaro, Quasimodo fu nominato per ”chiara fama” professore di letteratura italiana al Conservatorio Verdi di Milano nel 1941, dunque non in epoca della Repubblica Sociale Italiana.
Dopo aver criticato la poesia di Quasimodo, citando un severo giudizio del critico Alfredo Gargiulo, Ungaretti si chiedeva come l’autore di ‘Ed è subito sera’ avesse potuto ottenere il Nobel. Ungaretti sparava così a zero sulla giuria dell’Accademia svedese e scriveva tra l’altro: ‘Tu sai che chi lo attribusce sono quattro poeti ridicoli. Gli altri sono uomini di scienza e il più cretino dei quattro è il segretario permanente”.
Dopo aver tirato in ballo i maneggi di Quasimodo, di alcuni giurati e di suoi amici per traduzioni in Svezia, Ungaretti concludeva in questi termini il suo amaro sfogo per non aver ricevuto lui il tanto agognato premio: ”Hai compreso la serietà del Nobel? La me.rda che è in realtà il Nobel?”.