Assolutamente indispensabile alla vita di ogni essere vivente, umano, animale e vegetale, l’acqua è stata oggetto in Italia di un referendum popolare nel quale una larga maggioranza di cittadini si è schierata in difesa della gestione pubblica di questo “bene comune”. Il mondo intero ha sete, la popolazione è in continuo aumento, i mutamenti climatici favoriscono il diffondersi delle zone aride, le foreste pluviali si riducono a causa del crescente consumo di legname, e l’acqua, come qualsiasi altra risorsa naturale, non è infinita. Indirettamente, ma anche da queste considerazioni deriva dunque l’attualità dell’incontro intitolato “Alla ricerca delle antiche fonti, le vie d’acqua di Macerata” che promosso dall’Accademia dei Catenati si è tenuto giovedì scorso alla Biblioteca statale su iniziativa di Luigi Ricci, valente professionista nel campo della comunicazione multimediale.
Fino alla prima metà del Novecento la città era priva di acquedotti e per secoli l’acqua le era stata fornita dalle fonti, con annessi lavatoi pubblici e talvolta peschiere private, che la ricevevano per spontanea risalita dal sottosuolo. Il ceto più abbiente – quello nobiliare, che risiedeva nella parte alta della cerchia muraria – si avvaleva di cisterne per l’acqua piovana all’interno dei propri palazzi, ma il resto della gente, quella del centro, della periferia e dei campi, per dissetarsi, cucinare, lavarsi e lavare indumenti doveva ricorrere all’acqua delle fonti. “Tutte li fundanelle se so’ seccate, pover’amore mé more de sete”, dice un’antica canzone popolare abruzzese. A Macerata no. Ce ne sono ancora più di quaranta e, benché in preda all’incuria, non si sono seccate: funzionano. Alcune risalgono al Trecento, quasi tutte sono dei piccoli “monumenti” da conservare e, molte, da ammirare per la loro bellezza. Tutte, comunque, meritevoli di interesse non solo estetico o culturale in senso stretto, ma come testimonianza di un passato da non ignorare né dimenticare, perché sarà pur vero che, specialmente oggi , il presente ci sovrasta con le sue pressanti difficoltà, ma la memoria del passato è preziosa: fa maturare in noi un sentimento non disperato del futuro.
Non a caso, quando in pieno Novecento le antiche fonti stavano via via cessando di rivelarsi necessarie alla vita corrente, il loro fascino ha continuato a colpire la sensibilità e la creatività degli artisti e dei letterati. Si pensi a Luigi Bartolini, il grande incisore, poeta e narratore che s’innamorò a tal punto di Fonte Maggiore – e delle lavandaie che la frequentavano – da dedicarle alcune delle sue opere migliori (e una lunga poesia, scritta nel 1924, che cordialmente inizia così: “Fonte Maggiore / ti conosco a tutte l’ore, / tu dell’ingenua allegria / sei la raduneria”). E di lui, nella manifestazione di giovedì, ha diffusamente parlato Nino Ricci, fratello di Luigi, che ha descritto gli anni trascorsi a Macerata dal giovane Bartolini (la famiglia abitava in via Mozzi) e lo studiolo presso la chiesa di San Giorgio dove si affinò la sua maestria di incisore e da dove gli era facile, con quattro passi, raggiungere Fonte Maggiore e trarne ispirazione, dopodiché Nino Ricci, egli stesso incisore di valore nazionale, si è soffermato, con l’ausilio di immagini, sulla tecnica di questa forma d’arte e ne ha posto in risalto la forza espressiva. E si pensi al fascino che le fonti ebbero su un altro incisore di vaglia come il maceratese Giovanni Mainini, e alla passione con la quale si occuparono delle fonti l’architetto Gabor Bonifazi, che ad esse dedicò un intero libro e centinaia di articoli, il fotografo Carlo Balelli, e un “intellettuale ruspante” come Vincenzo Montanari.
“Clou” dell’incontro alla Biblioteca statale è stata la presentazione da parte di Luigi Ricci di una sua ampia rassegna video sulle fonti di Macerata, fra le quali spicca ovviamente Fonte Maggiore, la più grande, la più antica (fu costruita nel 1326), la più celebrata, la più importante sotto l’aspetto architettonico. Ma anche la cinquecentesca, e purtroppo snaturata, Fonte San Giorgio, sotto viale Leopardi, all’inizio della stradina che conduceva i pellegrini alla chiesa dei Cappuccini Vecchi. E la Fonte Agliana, anch’essa del Cinquecento, sulla sinistra di via Santo Stefano, che nel 1984 fu restaurata su insistenza di Gabor Bonifazi e grazie alla generosa disponibilità dell’impresa Monteverde (durante i lavori ne guizzò fuori un pesce, chissà se pure lui del Cinquecento). E la quattrocentesca Fonte Canepina (vi si sciacquava la canapa) a Corneto, all’altezza del Tribunale, al di là della superstrada. E la neoclassica Fonte Pozzo del Mercato, sotto corso Cairoli. E la Fonte del Malnome, fine Cinquecento, a Piediripa, che alimentava la peschiera dei marchesi Ciccolini (nel 1974 la vicina torre fu acquistata dal celebre pittore belga Guillaume Corneille, che scelse di trascorrere qualche anno da noi). E la cinquecentesca Fonte San Giuliano, dalle parti di Madonna del Monte, dove fino a pochi anni fa si andava a lavare le macchine. E, di fine Quattrocento, la bellissima Fonte Ciambrione o delle Trippe (i macellai se ne servivano per lavare le interiora dei bovini), che reca due teste di leone scolpite da Girolamo Angelo di Pascucci, l’autore dei mascheroni ai lati della Torre di Piazza.
Raggiungibili? Visitabili? Certo. Ma, semicoperte dalla vegetazione e a volte dalle zolle, quasi invisibili. Eppure sarebbe un bel colpo, per il Comune, ripulirle, dar loro un’assestatina e includere le migliori in una sorta di “tour” culturale che ognuno – o, in gruppi, le scuole – possa fare liberamente anche a piedi, assistendo a una piacevole e salutare lezione d’arte e di storia, e col vantaggio di potersi rinfrescare il viso durante il percorso. Un bel colpo, ripeto. Troppo costoso? Non credo. E tale da offrire pure ai turisti l’attrattiva di un’ulteriore bella immagine della città, un’immagine che fra l’altro avrebbe il pregio dell’originalità e si inserirebbe in una più generale politica di valorizzazione dell’ambiente naturale. Comunque sì: raggiungibili e visitabili. Con una sola eccezione: l’inaccessibilità della Fonte Ciambrione, che si trova all’interno di una recintata ed edificata area privata e oltretutto, nascosta da un boschetto di canne, non è visibile neanche dalla strada. Peccato.
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Bellissimo articolo
tra il 1994 e il 1997 , con i fondi della Regione, Fontemaggiore fu restaurata e resa funzionale alla convivialità e alla rappresentazione di spettacoli e fu recuperata la fontana delle trippe; nel 1996 con i fondi del Comune fu recuperata la fontana detta di Santa Maristella, visitata da scolaresche per qualche anno ed ora abbandonata sotto il viadotto di via Tucci.
SAREBBE DA RECUPERARE AL PIU’ PRESTO FONTE AGLIANA, la più bella e complessa dopo Fontemaggiore, ORA SOMMERSA DAI ROVI: si potrebbe includerla, o meglio incastonarla, nel parcheggio Garibaldi, estendendo quest’ultimo oltre la fontana, nell’area di sosta ora lasciata a se stessa: perché l’APM non si incarica di quest’opera culturale ?
aggiungo che la recinzione di Fontemaggiore del ’95 non fu certo armonizzata con lo stile della fontana!
Articolo bellissimo, questi sono i luoghi da preservare.
Ora la fontana delle trippe, recuperata con i soldi della Regione (come dice Maulo), è all’interno della recinzione di una casa privata (si vede benissimo dalle foto prima e dopo). Sarei proprio curioso di sapere se il Comune l’ha venduta oppure no. Di chi è la casa… è cosa risaputa.
Da molti anni recintata e quindi non più pubblica ma privata.
Chiedo a Paolomc o a chi altro lo sa: di chi è la casa? Io non lo so.