di Laura Boccanera (foto di Andrea Petinari)
La risposta alla domanda del titolo, alla fine, era già tutta lì, nel silenzio attento della platea: era giusto esserci. Perché davanti a Domenico Iannacone, al suo “Che ci faccio qui” portato in scena, non si assiste semplicemente a uno spettacolo, si partecipa a un rito laico di umanità. Non c’era un altrove possibile. Era il posto giusto, l’unico in cui valesse davvero la pena stare: dove le parole diventano carezze, e il giornalismo si fa poesia con un format sperimentale e interessante.
Domenico Iannacone in “Che ci faccio qui in scena”
Ieri sera al teatro Lauro Rossi di Macerata il giornalista è stato ospite dell’ultimo appuntamento del festival Humanities organizzato dall’Università di Macerata e che aveva come tema il dialogo.
Domenico Iannacone “esce dalla scatola” quella della televisione e del suo programma, per raccontare di sé e di tutto quello che dentro il tubo catodico, come direbbe un uomo o una donna del Novecento, non si percepisce.
Ad esempio gli odori, quelli che fanno clic nella testa e riportano ai luoghi delle inchieste. Come quello di un neonato di Scampia, o quello acre e pungente del fumo della Terra dei fuochi o ancora quello di sangue e dolore respirato in un capannone in cui vivono emarginati e tossicodipendenti. E Iannacone, supportato dal tappeto sonoro live di Francesco Santalucia e dal visual di Raffaele Fiorella torna al suo passato, al suo Molise, inizio e radice di ogni cosa.
Il suo scavare negli abissi deriva dal lavoro dei muratori e da un film manifesto del neorealismo “Ladri di biciclette”. Il gusto per le storie minime ma universali arriva da lì. Ma in Iannacone quella verità, pur cruda, dura, capace nei suoi video racconti di stritolare lo stomaco, è come circondata e resa sopportabile dalla poesia del suo sguardo. Compassione, mai pietismo. E poi le parole: ricercate, incastonate, ognuna al posto giusto, un dizionario sconfinato, come quello che da ragazzo usava per «passare il tempo. Era la mia sfida – spiega – ogni giorno dovevo imparare tre parole nuove. È stato il mio modo di evadere in mille mondi differenti anche se ero in Molise».
E in scena tutto questo si traduce nell’eliminazione della distanza: la storia di Michele, quella di Maria, o di Liliana arrivano intere, arricchite di particolari inediti. E ad un certo punto, come racconta l’autore, «dopo tutto quell’abisso il rischio è di non riuscire a continuare. E allora mi sono detto: il senso di quello che faccio è riuscire a salvarne almeno uno».
Da qui arrivano le storie luminose, gli esempi virtuosi, storie piccolissime, ma capaci di cambiare il mondo, e, per primi noi stessi. E poi la poesia: «se qualcosa di poetico c’è nel mio lavoro – prosegue nel monologo – arriva da Amelia Rosselli» racconta mostrando due fogli fitti di versi dattiloscritti, quelli che a 17 anni arditamente inviò alla più grande poetessa vivente. E la poesia torna anche con i riferimenti a Pasolini, a Wim Wenders e agli angeli del cielo sopra Berlino, alla filosofia, come quando parla dello sguardo. «Platone diceva che se guardiamo negli occhi gli altri, se li guardiamo veramente, nella più piccola parte dell’occhio riusciamo a riconoscere noi stessi. Senza l’altro non esistiamo».
E scorrono così due ore dense, in apnea, in cui il giornalismo esce dalla pagina stampata o dall’immagine televisiva per diventare corpo, voce, senso vero dell’esistenza. Non mancano le incursioni nell’attualità, dall’attentato a Sigfrido Ranucci, alle immagini di Gaza. E quando le luci si spengono si ha la sensazione che qualcosa sia accaduto davvero. Non uno spettacolo, ma un incontro: tra chi racconta e chi ascolta, tra chi cerca e chi si lascia trovare. “Che ci faccio qui” diventa allora una risposta collettiva, una dichiarazione silenziosa d’appartenenza di chi non si lascia attraversare dall’indifferenza.
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