Con queste mie riflessioni vorrei ritornare sulla recente morte per overdose di un ragazzo di 33 anni (leggi l’articolo). Matteo era un paziente del Sert di Macerata, l’ho conosciuto per poco tempo, come spesso succede per il mio ruolo di capo dipartimento. Ma la sua morte mi ha toccato molto e ha richiamato alla mente tutti i ragazzi scomparsi per la stessa causa e che ancora sono impressi nella mia memoria. Le Marche sono la seconda regione in Italia per morti di overdose da eroina, seconde solo all’Umbria: i decessi per 100.000 abitanti sono 2,8% per le Marche, dove la media nazionale si attesta intorno all’1%. Cosa si può pensare di queste morti e di tanti altre “overdosi bianche”, cioè di quelle non conosciute, perché fortunatamente non hanno avuto come esito finale la morte della persona? Non sono riuscito a darmi delle risposte ma, più che altro, il continuo pensare a questi tragici eventi legati alla droga, mi ha sollevato una domanda: Ho fatto tutto quello che era in mio potere per evitare la morte di Matteo? Ed io la pongo anche a voi che leggete, avete fatto tutto quello che era in vostro potere per evitare la morte di Matteo? Sì, ce lo dobbiamo chiedere tutti, perché quando c’è un’inspiegabile morte per overdose di un giovane, l’impotenza che ci invade, la rabbia che ci prende, il dolore che ci pervade comportano una corsa di tutti i noi, compresi i media, nella ricerca della responsabilità (della struttura sanitaria, della Comunità, della famiglia, della società ecc.). Un tentativo di collocare le responsabilità sugli altri per non guardare i nostri limiti e le nostre responsabilità. Di sicuro l’atto finale di quello che è successo è dovuto al comportamento di Matteo che, dopo due anni di comunità terapeutica, ha cercato di nuovo la droga e ne è rimasto ucciso iniettandosela, quindi non parlo di responsabilità diretta ma di una corresponsabilità di tutti noi.
Il meccanismo di difesa che più usiamo per liberarci dai sensi di colpa è individuare le responsabilità di quello che accade nell’altro, in un capro espiatorio che in qualche maniera assume su di sé la colpa dell’evento. Apparentemente questo ci fa stare meglio, ci fa tornare in una società, in un territorio, in una città, nella nostra famiglia, ci permette di riimmergerci nel nostro vivere, nella nostra tranquilla quotidianità, insomma di mettere lo sporco sotto il tappeto. Vorrei fare un’analisi con voi – cittadini, genitori, insegnanti, imprenditori, religiosi, politici, associazioni, medici, operatori di comunità, forze dell’ordine – di quello che significa essere dipendenti da una droga o da altro (per es. dal gioco), di quanto questo disturbo psichico che si instaura sia potente e condizioni in modo importante i comportamenti delle persone. Quando siamo di fronte a queste malattie di dipendenza ci aspettiamo che qualcuno ci dia una ricetta salvifica, una sorta di miracolo che riesca a tirar fuori un giovane da questa grave problematica.
Intanto vi dico che non esiste una ricetta salvifica e di stare lontano da chi vi si propone come unica risposta alla dipendenza. Come medico-psichiatra, continuo a studiare le neuroscienze, che per fortuna negli ultimi 10 anni hanno fatto passi da gigante nella conoscenza del funzionamento cerebrale. Nella malattia da dipendenza una delle cose che ci hanno insegnato le neuroscienze è che esiste una “memoria biologica” del piacere dato dall’uso di sostanza. Ciò significa che il cervello ricorda il piacere legato all’uso per anni, forse per sempre. Il ricordo può essere evocato da un odore, dalla vista di una persona, dalla vista della sostanza, o da un malessere interiore acuto o prolungato nel tempo. In tutte queste situazioni la persona che ha fatto uso di sostanza viene posta di fronte ad una scelta: un vantaggio immediato dato dal piacere dell’uso di sostanza, quindi l’agire di un comportamento automatico, istintuale, quasi animale direi o una risposta più razionale che protegga dall’uso valutandone tutti gli aspetti negativi e privilegiando altre scelte.
Pensate a quando siete affamati e vedete il vostro piatto preferito (per es. una fetta di torta Sacher)… nel vostro organismo accadono cose che vi spingono verso il cibo: l’acquolina in bocca, un buco allo stomaco, una sorta di ansia. Ora dovete decidere se la vostra fame è vera o indotta dalla vista del cibo, dovete decidere se mangiare quel pezzo di torta che vi darebbe un piacere immediato o se non mangiarla perché questo comporterebbe un accumulo di calorie. Pensate a questa bilancia decisionale in una spinta un milione di volte più potente del richiamo della vostra fetta di torta: un richiamo dato dalla droga. Ho semplificato per farvi capire in che situazione è chi ha fatto uso droga quando, per una delle ragioni descritte sopra, ricorda il piacere dell’uso e ne è spinto al riutilizzo. Noi tecnici la chiamiamo “ricaduta”, e questo è il grosso problema di tutte le dipendenze: la ricaduta avviene appunto quando la “memoria biologica” del piacere dato dall’uso di sostanza prende il sopravvento sulla scelta razionale.
Il momento di fragilità più grande per chi è dipendente è quello della “fine” della terapia, sia essa in Comunità o in seguito ad un trattamento ambulatoriale. In quel momento c’è il rischio maggiore, perché il cervello è più sensibile all’effetto della sostanza e la persona deve ricominciare ad agire con comportamenti autonomi, scelte di vita, nuove relazioni, rivedere vecchie relazioni, trovare lavoro, insomma rimettersi in società in maniera autonoma. Questo momento prima o poi arriva e non lo si può evitare, a meno che non pensiamo di far rimanere la persona per sempre in ambiente protetto.
In quale situazione si sono trovati Matteo e altri ragazzi come lui nel momento in cui, dopo molto tempo di cura, hanno cercato l’eroina? In una situazione nella quale il loro cervello indebolito, fragile e più sensibile è stato avvelenato da un’eroina più pura, reperibile oggi sul mercato. Ma allora mi direte: “noi non potevamo fare nulla.” Su questo non sono d’accordo. Matteo aveva bisogno di avere un’alternativa all’uso di droga, un’alternativa alla droga che dilaga nel nostro territorio, ma si è ritrovato in una società dove i rapporti relazionali sono falsati, più costruiti sulla convenienza che sulla solidarietà, in un mondo “liquido”, mentre lui aveva bisogno di punti di riferimento solidi, in una società dove la cultura della droga è ormai accettata a tutti i livelli. E vi ricordo che quella società siamo noi!
Allora l’altra domanda potrebbe essere: “non si esce dalla tossicodipendenza ?”. E io vi dico che è difficile, è un percorso lungo, ma lo si può fare; il cervello umano fortunatamente è plastico, quindi può tornare nel tempo ad un funzionamento adeguato ma la persona ha bisogno di una rete di supporto, una rete di relazioni, non bastano i medici e le comunità, serve che tutta la società prenda atto di questo e attivi le proprie risorse. Sicuramente qualcuno, per tranquillizzare la propria coscienza, avrà pensato di Matteo che era un tossico, che era logico che facesse quella fine, che non si poteva fare nulla se non mettere lo sporco sotto il tappeto e tornare alla nostra vita tranquilla. Spero che le morti di Matteo, di G., di M., di T., di N., di P., di C. servano invece a svegliare le nostre coscienze, servano a rifiutare e a combattere realmente la cultura e l’accettazione della droga e servano a farci capire le nostre corresponsabilità e non solo cercare quelle degli altri.
Venerdì con alcuni colleghi sono andato a Perugia, dove ci aveva convocato il Capo Dipartimento Nazionale Antidroga Giovanni Serpelloni che, insieme alle forze dell’ordine e in particolare con i R.I.S (il reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri), ci ha aggiornato su un’ondata di nuove droghe che stanno arrivando, esse possono essere acquistate attraverso internet e vengono spedite direttamente e in modo riservato nelle abitazioni dei nostri figli. L’Italia per fortuna è il paese Europeo dove queste nuove droghe si consumano di meno, ma bisogna agire velocemente. I Servizi sanitari dedicati e quelli di emergenza sanitaria hanno bisogno di una formazione costante (pensate che in un anno sono state individuate 800 nuove droghe), poiché non sappiamo quali sono i danni acuti e cronici provocati da molte di esse. A breve il Dipartimento Nazionale Antidroga metterà a disposizione un software per bloccare su computer o smartphone dei nostri figli i siti individuati che commerciano queste pericolose sostanze.
Giovanni Serpelloni ha anche detto che l’informazione e la prevenzione devono partire con i nuovi genitori al momento del concepimento. E io sono d’accordo in quanto credo che il mestiere di genitore oggi sia difficile e vada supportato fin dall’inizio. Ma si è parlato appunto anche di corresponsabilità di tutta la società: la droga è un’emergenza sanitaria e come tale va trattata, non si può far finta che non esista il problema. E’ solo con la diminuzione della domanda di droga che si limiteranno i danni sui nostri giovani. Prendiamo atto tutti quanti (cittadini, genitori, insegnanti, imprenditori, religiosi, politici, associazioni, medici, psicologi, infermieri, responsabili e operatori di comunità, forze dell’ordine) che è necessario cambiare la cultura sul problema, è necessario affrontare la problematica da un punto di vista scientifico e non ideologico, senza silenzi, alzando magari i toni, aumentando la repressione, considerando che anche l’acquisto di un solo spinello fa guadagnare le narcomafie. Lottiamo insieme per i ragazzi che sono morti a causa della droga e per i loro genitori, per il dolore che questi ultimi hanno provato e provano ancora per la perdita dei loro figli. Lottiamo pensando che nessuno è totalmente esente da questo problema e non pensando sempre che i cambiamenti dipendano dagli altri, ma che partono da noi. Chiudo con una frase di Jiddi Krishnamurti, filosofo indiano che ha molto scritto sulla vera libertà dell’uomo: “Non è segno di salute psichica adattarsi ad una società malata”.
* Gianni Giuli, direttore Dipartimento Dipendenze Area Vasta 3
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Siamo immersi in un vocio pieno di nulla e di cazzate. Fa piacere, anche se l’argomento è indigesto, leggere interventi come il Suo. Grazie Dottore.
Gianni Giuli, come sempre ed in tutte le occasioni, dimostra nei fatti la passione e la competenza con cui svolge il proprio lavoro. Dobbiamo essere fieri di personaggi come lui e starlo ad ascoltare con attenzione. A volte è facile per tanti riempire le pagine di parole belle si, ma sterili perchè prima di uscire dalla bocca non passano attraverso il cuore. Giuli ci pone davanti alla nostra responsabilità di cittadini, di donne e uomini che pensano al problema della tossicodipendenza solo come un problema degli altri, degli ultimi. Ci pone difronte alla nostra responsabilità quando parliamo di liberalizzare alcune sostanze : un modo semplice per noi per far si che la droga, nella nostra testa, non sia piu’ un problema illudendoci cosi’ di essere in pace con la nostra coscienza.
E’ triste vedere come per problemi molto meno importanti ci siano, anche in questo giornale, tantissimi commenti e come invece viene ignorato un articolo come questo. Una partita di pallone o un palazzetto sono inezie se paragonate alla tragedia della droga.
Coraggio Giuli bisogna andare avanti.
Complimenti Direttore, il suo articolo è davvero perfetto sotto ogni punto di vista e rappresenta la passione che prova per il lavoro che svolge.
Spesso è difficile rendersi conto dei drammi degli altri, vuoi perchè si tende a nasconderli vuoi perchè la maledetta frenesia imposta da questa società travolge tutto e va messo un freno.
Ultimamente ho letto un libro di Cristoph Koch, Una Coscienza, davvero interessante e per un profano come me “sconvolgente”.
Grazie per la sua lettera.
Non voglio certo fare polemiche su argomenti di questa rilevanza sociale ed umana, non voglio neanche stare a giudicare il lavoro quotidiano di chi sta in trincea tutti i giorni nella lotta alle dipendenze, oggi ancora più complessa di trentacinque anni fa. Vorrei dalle parole di Giuli cercare di fare alcune brevi considerazioni, che possano essere utili agli addetti ai lavori e a tutti gli educatori. Primo. Il periodo dell’emergenza non è mai terminata, iniziata alla fine degli anni 70 e interrotta alla metà degli anni 90, e l’emergenza è stata voluta soffocare con le leggi repressive della destra italiana con i vari Muccioli, Don Gelmini che ebbero soddisfazione con le norme che hanno solo riempito le carceri di ragazzi giovani. Secondo. Le esperienze positive delle comunità terapeutiche sono state molto valide, ma hanno funzionato solo quelle che hanno mantenuto il rapporto del tossicomane con il territorio di origine durante il trattamento, e mi dispiace per i “benpensanti” non è il caso di continuare a dare alla Pars il ruolo egemone, nell’intera provincia di Macerata, dei molti progetti di educazione nelle scuole che si scoprono fallimentari, e i ricoveri nelle loro strutture, perchè numerose sono le recidive e purtroppo le morti. Terzo. Da più di trenta anni, e no ultimamente, si conosce l’effetto memoria dell’eroina, e proprio per questo allontanare il ragazzo dal territorio, per tutto il periodo della comunità non favorisce un confronto necessario contro le “ricadute”. Quarto. Bisogna mettere in discussione le campagne d’informazione e di prevenzione radical-chic perché non avranno mai esito corrispondente alle aspettative. Quinto. Bisogna ricominciare a lavorare sulla strada e sporcarsi le mani. Un sincero augurio di buon lavoro.
generanti o genitori? … non ci sono scuole per imparare ad essere buoni genitori, e l’istinto materno o il buon senso del buon padre di famiglia sono insufficienti! sono necessarie scuole di rieducazione per figli e per genitori, studi e corsi di vera e propria formazione … corsi di VITA … una famiglia duramente colpita non può essere lasciata da sola! a lungo andare la tragedia la travolge, la smembra, le toglie la forza e la voglia di combattere; da anni sento parlare di prevenzione e, dallo stesso tempo sento dire che mancano le risorse finanziarie, oltre alla volontà di un impegno fatto di azioni oltre che di belle parole …. fiumi di belle parole, anzi, d’effetto: “sensibilizzare x essere prepositivi e non restare indifferenti” … “bisogna combattere il degrado urbano perché facilita la criminalità” … ricordo l’intervento del vice prefetto, a montefano, il 29 ottobre del 2011 … <<organi istituzionali si sono interrogati … bisogna monitorare lo spaccio che è raddoppiato dall’anno scorso … a macerata si è avviata una conferenza permanente allargata tra comunità terapeutiche + sert + sindaco + assessori + progetti e modalità atti a creare una sorta di pacchetto da esportare nelle zone più a rischio>> poi, di seguito … <<il mio personale ha donato tempo, anche libero e ore di lavoro gratis per il grave problema della mancanza di soldi>>!!!! esterrefatta, non penso che occorra commentare … anzi, c’è poco da commentare!!!! il progetto sembrava ben definito, il sert avrebbe operato con educatori e docenti di scuole medie + 1° e 2° anno delle superiori … lo stesso progetto avrebbe dovuto interessare anche associazioni sportive, discoteche e luoghi di ritrovo … sarebbero nati i primi contatti con le famiglie perché il problema dilaga ma è nascosto perché ci sono la vergogna e il timore a farlo emergere, soprattutto da parte delle famiglie più in vista!? … lodevole, veramente lodevole, ma è rimasto solo sulla carta?
Infatti di salute psichica in giro non è che se ne noti molta.
Bravo Gianni, hai fatto un articolo da manuale. Spero che lo leggano in tanti e che ne tengano buona memoria. Gaetano Angeletti
Il problema è infatti la società, non le sostanze in sé (in cui i più fragili talvolta cercano rifugio).
Per questo TUTTI (non scarichiamo sempre sui politici, sulla scuola o sui genitori) dovremmo “smuoverci” per cambiare la situazione attuale.
Solo con una più ampia coesione sociale e culturale si possono sconfiggere questi “mali di vivere”…