Tango e angoscia: la tragedia dei desaparecidos rivive al 43° Festival Macerata Teatro

LA RECENSIONE

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di Walter Cortella

La Compagnia Linea di Confine di Roma torna a calcare le tavole del teatro L. Rossi con «Tango», un lavoro altamente drammatico scritto da Francesca Zanni. Il tango in sé c’entra poco o nulla con la vicenda narrata. Serve soltanto ad evocare, con il ritmo coinvolgente e l’andamento sensuale, la lontana Argentina che nel marzo del 1976 fece da sfondo ad una delle più sanguinose tragedie di fine secolo. In quell’ anno un gruppo di colonnelli mise in atto un «golpe» dal quale nacque una feroce dittatura, esauritasi nel 1983 con il conseguimento dell’obiettivo prefissato: la distruzione di un’intera generazione che voleva modificare le strutture politiche del paese. Ben 30.000 giovani, rastrellati nelle loro case in piena notte dalle forze di polizia, scomparvero senza lasciare traccia di sé e non fecero più ritorno in famiglia. Tra gli arrestati ci furono molte donne incinte. I neonati furono sottratti alle madri e adottati dagli stessi aguzzini, con l’intento di farne futuri «cittadini modello». Le mamme dei desaparecidos si misero immediatamente alla disperata ricerca dei figli ma anche dei nipoti. In alcuni casi furono fortunate e molti giovani, venuti a conoscenza della tremenda verità, lasciarono per sempre le agiate case dei genitori «adottivi» per riprendersi la loro vita. «Tango» non è uno spettacolo in senso tradizionale.
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La protagonista Paola Negrin

La storia ha più un andamento cinematografico che teatrale. La protagonista (Paola Negrin) racconta la terribile esperienza della prigionia e delle torture subite (foto), per sopportare le quali inventa un gioco basato sulle parole. Un piccolo trucco per non sentire il dolore fisico. Grazie alla magia del teatro, la donna fa il suo racconto circa venti anni dopo quegli avvenimenti, ma lei è già morta. Fu lanciata da un aereo militare in pieno Atlantico insieme ad altri sequestrati perché non se ne trovassero mai più i corpi. È un racconto ormai distaccato il suo, quasi onirico, senza più lacrime, e che di tanto in tanto assume toni altamente drammatici. È un éscamotage per non piangere e disperarsi. Sarebbe insopportabile per lo spettatore ascoltare il racconto di quelle atrocità e rimanere seduto in poltrona.

Lo stesso fa il giovane (Giuseppe Russo) adottato da un colonnello, uno dei tanti torturatori, mentre attinge i suoi ricordi da uno scatolone: racconta le tre tappe fondamentali della sua vita, la agiata ma oscura infanzia, la cruda presa di coscienza grazie all’infaticabile azione delle «abuelas de Plaza de Mayo» e infine la nuova esistenza nel ricordo della madre mai conosciuta.
Sulla scena, essenziale ma capace di commuovere e coinvolgere il pubblico, i due protagonisti sembrano due sconosciuti. Vivono vite parallele collocate su piani temporali diversi. Ognuno racconta la sua storia in forma di monologo, senza mai uno scambio di battute. Solo alla fine si svela il legame di sangue che li terrà uniti per sempre.

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La coppia di tangueros Valeria Corazza e Wainer Avagliano

Lo spettacolo, patrocinato da Amnesty International, nasce dalla volontà e dall’esigenza di raccontare, attraverso il teatro, una storia che potrebbe appartenere a chiunque. La sconvolgente verità della vicenda e la atrocità dei particolari evocati generano nello spettatore una sorta di angoscia che si dissolve solo dopo il termine dello spettacolo e lo spontaneo applauso liberatorio. I due protagonisti sono stati bravissimi nell’interpretare con grande intensità e spiccata personalità i difficili ruoli. In particolare, la Negrin mette in evidenza una notevole capacità espressiva ed una assoluta padronanza del corpo. Felice l’idea di inserire nello spettacolo un’affiatata coppia di tangueros, composta da Valeria Corazza e Wainer Avagliano (foto). Un particolare apprezzamento merita il regista Roberto Belli per aver saputo mettere in scena con maestria un testo davvero impegnativo.



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