Jonata Sabbioni – Al suo vero nome

Seconda puntata di "OSSERVATORIO C-MINIERA", la nuova rubrica settimanale di recensione di libri e dischi

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di Filippo Davoli

Credo siano passati almeno quindici anni, da quando venni invitato alla cerimonia conclusiva di un premio di poesia scolastico, a Fermo, mia città natale. La scuola aveva realizzato anche un opuscolo con i testi partecipanti: non figurava tra i vincitori, ma riuscì a toccarmi dentro una piccola poesia di un ragazzino che, quella mattina, non era nemmeno presente nella grande aula che raccoglieva partecipanti e professori. Si chiamava Jonata Sabbioni e, insistendo presso gli organizzatori, ottenni che venisse perché potessi conoscerlo. Oggi, quella mia sensazione incoercibile di una voce potenzialmente vera e forte trova la sua prima risposta compiuta in un libro, opera prima di un Jonata Sabbioni ormai adulto, per quanto ancora molto giovane, apparsa per i tipi de “L’arcolaio” con il titolo Al suo vero nome.

La poesia del fermano Sabbioni si inserisce a pieno titolo in quel filone assai riconoscibile – per quanto ancora sotto studio per le sue variabili – che va sotto il nome di “linea marchigiana. Nel suo a tutt’oggi insuperato studio sulla poesia delle Marche nel Novecento (Il Lavoro Editoriale, 1998), di cui sono in corso gli aggiornamenti ad opera del medesimo autore, Guido Garufi – con felice efficacia – scriveva di “equilibrio nell’affrontare la pagina”: una lingua, cioè, che non ha subìto gli strappi vocianti delle avanguardie, preferendo attestarsi piuttosto in prossimità di taluni esiti lombardi (Sereni in primis). E ancora, qualche pagina prima, ancora Garufi: “Lo scrittore marchigiano, seppure separato dalla alacrità delle ‘scuole’ (critiche e poetiche) del nord e di Roma, avrebbe ‘conquistato’ un modo tutto particolare e personale di indagine della natura, di riflessione sul paesaggio, amplificando lo scavo interiore e la discesa nel proprio io, in qualche modo ‘fondando’ sulla scia dell’asse leopardiano una poesia ‘antica e nuova’, tradizionale e moderna”.

È a pieno titolo (anche) il caso di Sabbioni, a mio parere erede naturale di Alvaro Valentini: Al suo vero nome è una domanda di senso e di destino chiesta alla natura – anche nelle sue implicazioni maggiori, metafisiche (il tu interlocutorio lo lascia intendere più di una volta) – attraverso i codici della lingua poetica. Una lingua educata, sobria, mai minimalista o di maniera, solida e semplice, con quella difficilissima arte della semplicità che, ai tempi nostri, è un rischio interessante… e che, tuttavia, è contemporaneamente propria della frequentazione abituale e proficua della biblioteca, ma in un confronto/ridiscussione perenne attraverso le cose e gli incontri.

Jonata, che ha vissuto per almeno un anno in Portogallo tornando poi nella sua Marca (come moltissimi altri marchigiani della cosiddetta “diaspora”) risponde pienamente anche ad un’altra inquadratura del nostro carattere: “un popolo che la pratica quotidiana del mare e dei campi ha reso taciturno, appartato, schivo alle facili aperture, e tuttavia più incline alla malinconia che alla tristezza, più all’interrogazione che all’angoscia” (Antognini), sì che io spesso adotto la definizione di “temperamento ondoso-collinare”, di mobile terrosità, senza mai conoscere le libertarie anarchie di un’apertura sconfinata e neanche – perlomeno negli esiti migliori… – gli autobiografismi che tanta nostra letteratura hanno avvilito.

Non credo che questo libro necessiti di molti altri appunti e note. Non sono affetto da quel fastidioso guasto che trasforma i testi in epiloghi di logorroiche disamine critiche. Sono certo che la poesia di Jonata saprà confermare la propria appartenenza e confortare il piccolo giudizio che le ho apposto.



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