di Maria Stefania Gelsomini
C’era bisogno di una scossa, e la scossa c’è stata. C’era attesa per questo Ballo in maschera, e per più d’un motivo. Accantonate per una sera le discussioni sul toto dopo-Pizzi e le conseguenti polemiche su un paventato accorpamento gestionale dello Sferisterio con i teatri di Jesi e Ancona, i riflettori finalmente si sono accesi sull’opera e sul canto: sul palco dell’Arena ieri sera è andata in scena la prima di Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, che ha inaugurato la 47ª stagione lirica maceratese. Una nuova produzione ideata proprio per lo Sferisterio dal maestro Pizzi che ne ha firmato regia, scene e costumi, un allestimento sicuramente originale dal punto di vista registico e scenografico, che probabilmente ripaga un po’ della povertà e della mancanza di idee che – inutile negarlo – hanno caratterizzato alcune delle produzioni degli scorsi anni.
L’idea di fondo è questa: spostare l’azione dal XVII secolo alla metà del Novecento, nell’America post-kennediana, e mettere sul palco quattro cameramen che filmano tutto ciò che accade e proiettano in diretta le immagini sulla grande quinta muraria dello Sferisterio. Un’idea efficace sotto il profilo simbolico, perché sottolinea la mancanza di libertà (Libertà e Destino è il tema della stagione 2011) dell’uomo contemporaneo, la cui vita è continuamente spiata dalle telecamere e sottoposta all’occhio indiscreto e invadente di un grande fratello televisivo onnipresente. Efficace anche sotto il profilo più strettamente tecnico, perché permette allo spettatore di osservare da vicino i volti e le espressioni dei protagonisti.
I puristi avranno senz’altro qualcosa da ridire, come sempre accade con le ardite trasposizioni spazio-temporali delle opere liriche, ma l’impressione che si è avuta ieri sera, dai commenti del pubblico ma anche degli addetti ai lavori, è che questa versione pizziana sia stata accolta positivamente.
Quando con qualche minuto di italianissimo ritardo si alza il metaforico sipario, una pedana rialzata di quattro gradini campeggia al centro del palco. È qui che si svolgeranno tutte le azioni. Ai lati due tribune dove staranno seduti gli “spettatori” della vicenda, impersonati dagli uomini e dalle donne del coro. Sul muro nudo vengono proiettate tre enormi bandiere americane, e Riccardo conte di Warwick governatore del Massachusetts entra in scena in divisa militare su una fiammante decapottabile rossa. Il tenore Stefano Secco riesce fin dalle prime note a tratteggiare alla perfezione, sostenuto anche da notevoli capacità recitative, il carattere magnanimo e allegro di Riccardo. Appassionato quando rievoca l’amore per Amelia, moglie del suo più fedele amico e collaboratore Renato, divertente e scanzonato quando decide di travestirsi da pescatore per farsi predire il futuro dalla maga Ulrica, alla quale ha appena concesso la grazia.
Di grande impatto emotivo e cromatico l’entrata di Ulrica/Elisabetta Fiorillo, con la voce potente e scura di mezzosoprano drammatico (la sua Azucena nel Trovatore del 1990 resta indimenticata), il fuoco negli occhi, la forza della gestualità. Avvolta in un abito fucsia e immersa in una luce fucsia, invoca il demonio per le sue profezie, ascoltata dalle signore ordinatamente sedute davanti a lei in abiti di tutti i colori, come un’allegra tavolozza di stoffa. Quando arriva Riccardo travestito da umile pescatore non la prende sul serio, è baldanzoso e sicuro di sé, gioca con la sua sfera di cristallo e la lancia in aria, insiste per farsi leggere la mano. Ma il verdetto è tremendo: egli morirà presto e per mano di un amico. Musicalmente va annotata l’emozione del concertato, con le voci all’unisono del coro, Riccardo, Ulrica e del paggio Oscar, che svetta limpida e squillante.
Quando arriva anche Amelia e chiede alla maga un rimedio per dimenticare il suo amore peccaminoso per Riccardo, Ulrica le indica un campo dove troverà un’erba magica. Ed ecco la scena più forte dell’opera: Pizzi immagina quel campo come una stazione di servizio abbandonata immersa nel fumo e nella nebbia, tra copertoni accatastati e vecchie pompe di benzina arrugginite, frequentata da drogati. La telecamera punta su un tossico che si buca il braccio e rantola a terra, poi su due ragazze che fumano uno spinello. L’erba consigliata da Ulrica è la droga. Amelia indossa una tunica nera e ha il volto coperto da un velo bianco, ma quando giunge Riccardo che l’ha seguita e le dichiara ancora il suo amore, Amelia cede e ammette di amarlo, e quel velo, quella maschera simbolicamente cade.
Sulla scena irrompe anche Renato, che fa scappare Riccardo inseguito dai congiurati che vogliono ammazzarlo, un gruppo compatto di militari armati di torce nel buio della notte squarciato dai fari di due motociclette. Ma a questo punto il velo di Amelia cade davvero e il marito riconosce in lei la donna amata dall’amico.
Il secondo atto si apre nella camera da letto di Renato e Amelia, con l’ira di lui, e la preghiera di lei. Vorrebbe uccidere la moglie, ma alla fine decide che a morire dovrà essere solo Riccardo. In un lettino accanto al talamo matrimoniale, il loro bambino di pochi mesi (bravissimo davvero a stare in scena così piccolo!). Qui i colori riflettono il contrasto dell’anima: sono il bianco e il nero, il grigio e il marrone. L’omicidio avverrà al ballo in maschera organizzato da Riccardo, una scena che Pizzi raffigura nei toni del nero, con le signore in lamé e gli uomini avvolti da mantelli d’argento. Fanno da contorno al ballo i danzatori vestiti con il rosso, il blu, le stelle e le strisce della bandiera USA. Riccardo in abito nero, Amelia in abito bianco si incontrano per l’ultima volta: il conte ha deciso di rinunciare a quell’amore e di far partire gli sposi per l’Inghilterra. Ma Renato non lo sa, entra e colpisce a morte il rivale, che però prima di morire lo perdona. In questo suggestivo finale in cui va in scena la morte, simboleggiata da una maschera che siede immobile accanto a Riccardo, le telecamere si sono rispettosamente spente. Lo spettacolo è finito.
Sul cast diretto dal maestro Daniele Callegari, dignitoso nel suo insieme, spicca senz’altro l’ottima performance di Stefano Secco, perfettamente dentro al ruolo, vocalmente senza alcuna sbavatura, generoso nell’interpretazione: un piacevole equilibrio fra tecnica e passione. Secco canta con grande buongusto, ed è un piacere ascoltarlo. Una voce chiara, limpida, pulita, a suo agio tanto negli acuti quanto nei passaggi di agilità, come pure nelle note basse e tenute, e un’ottima dizione che invece purtroppo manca alla soprano ucraina Viktoriia Chenska, che ha sostituito all’ultimo momento Teresa Romano. È lei, tra i personaggi principali, quella che probabilmente ha convinto meno, dimostrando una tecnica meno sopraffina negli acuti un po’ troppo “sparati” e poco controllati. Forse pesano la mancanza di esperienza e una non ancora raggiunta maturità nel ruolo, per cui accanto alla scarsa fluidità vocale si aggiunge una sorta di distacco dal personaggio, che risulta più freddo. Molto convincente invece la Fiorillo, che ad una presenza scenica ipnotica unisce una vocalità ricca di sfumature e carica di emozione. Un applauso speciale anche a Gladys Rossi, perfetta nel ruolo del paggio Oscar sempre vestita di rosso, soprano d’agilità capace di interpretare in maniera pimpante e sicura un ruolo solo apparentemente minore ma che lei riesce a far brillare e diventare principale. Buona anche la prova del baritono Marco Di Felice, che ha svolto il suo compito in maniera onorevole, con una voce scura e un cipiglio giusti per la parte.
Repliche il 26, 29 luglio e 5 agosto, intanto stasera il debutto (tempo permettendo) di Rigoletto.
(foto di Matteo Cicarilli)
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Prima di cominciare con i peana, con le glorificazioni, con gli applausi (a comando) cerchiamo di fare un pochino il punto della situazione e di riflettere meglio….
A) NULLA DI NUOVO SOTTO IL SOLE (PARTE PRIMA)
L’idea di avere dei cameramen che si muovo sulla scena non è altro che un “copia-incolla” di un’idea già da almeno 30 anni (ma penso di più) usata, strautilizzata ed abusata del cinema.
Invece di avere la telecamera fissa, oppure mobile su binari, i registi cinematografici usavano/no uno (o più) cameramen, con la telecamera in spalla, che segue da vicinissimo l’azione..
L’azione e la ripresa vengono così “più mosse” ma allo spettatore si da la sensazione di essere dentro la scena e le riprese sembrano più dirette, più reali.
Da almeno 20 tale “camera a spalla” è molto utilizzata anche nei concerti dal vivo, in cui (oltre le telecamere fisse) ci sono quasi sempre 2 o 3 cameramen seguono il cantante o il musicista nella performance… E tutto va in diretta sui megaschermi.
Quindi tutta questa “proiezione in diretta” non è altro che una semplie traslazione di un’idea già usata ed abusata altrove
B) NULLA DI NUOVO SOTTO IL SOLE (PARTE SECONDA)
Già nel 1984 allo Sferisterio un’Opera venne “riletta” in chiave postmoderna (con la protagoniosta che muore di overdose), quindi il maestro “copia-incolla” anche qui un’idea di quasi 30 anni fa.
C) CANTO
La cantante in sostituzione sembrerebbe aver cantanto non troppo bene, almeno leggendo la recenzione.
Poichè nell’Opera i “fondamentali” sono cantanti, coro e orchestra non mi sembra che sia un grosso successo quando la cantante è al di sotto delle aspettative.
D) CONVINZIONI
Poichè alla prima la stragrande maggioranza dei partecipanti, soprattutto delle prime file, ci va per farsi vedere e pochissimi hanno un minimo di cultura lirica o di spessore del bel canto e strapochissimi sono melomani che gli spettatori siano stati convinti che l’Opera in scena era qualcosa di molto positivo, o addirittura di quasi eccezionale, lascia un pò il tempo che trova.
Quindi più che Pizzi ha fatto centro io direi che ha fatto un centrino…
E’ tema d’indagine da sempre, nella critica verdiana, questo ripiegarsi del compositore sul privato del triangolo più classico, in cui solo motivazioni di fedeltà coniugale e personale, e non potenti legami di patria, di parte, di etnia, sostanziano il conflitto; come se Verdi già pensasse ai temi e ai vincoli possibili di una nuova società, di una nuova Italia moderna e borghese. Un’Italia che ancora non c’era, giacché siamo nel 1859; ma stava per nascere. E’ un’opera che ha avuto molto successo ma è la meno politica delle opere di Giuseppe Verdi.
Al contrario di quanto afferma l’autrice della recensione, da quanto ho potuto ascoltare direttamente (avendo partecipato come spettatore alla prima recita di ieri sera), il soprano Chenska è stata, a mio avviso, una Amelia vocalmente molto convincente.
La tristezza pervade la mia anima nel vedere una scenografia sterile, sapendo i costi di tale festival. Ci si lamenta dei tagli al Fus? In questo caso il taglio è d’obbligo che in scena utilizzano copertoni, bidoni, pompe dismesse, arredo Ikea, e cimeli motoristici.
Mah … che dire? “potevamo stupirvi con effetti speciali e colori ultravivaci” recitava una roboante pubblicità di qualche anno (decennio) fa, con la differenza che all’epoca nessuno si stupiva, mentre il maceratese con l’anello al naso, dopo aver giustamente criticato Pizzi (compresi gli articoli di questa testata), con due trovate da circo è sistemato ed ora plaude al “Maestro”.
Allora: cominciamo a dire che il soprano che sostituiva Amelia all’ultimo minuto, pur migliore della Romano, non era comunque all’altezza del ruolo, a meno che non fossimo ad una recita amatoriale a Roccacannuccia ….. ma un tempo, lo Sferisterio era uno dei luoghi più importanti della lirica, o no? Sui criteri di scelta di questa cantante, riscontriamo solo che è il classico tipo di donna che non disturba Pizzi: pallida, diafana, magra, quasi un fantasma (come la Turandot – poi Lady Macbeth di qualche anno fa): ma per una buona maledettissima volta, perchè non le sceglie per la voce????
Il tenore Stefano Secco (Riccardo), pur animato di entusiasmo e di buone intenzioni, ha una voce che dall’inizio alla fine dell’opera palesa difficoltà sempre crescenti. Idem come sopra quanto al raffronto con la recita amatoriale.
Il baritono Marco Di Felice, perennemente “intubato” e vittima del suo ghigno facciale sempre identico, risulta assolutamente non all’altezza del ruolo sia per il canto che per la recitazione.
Le trovate registiche: se poteva anche piacere (e a me non è dispiaciuto) l’impianto moderno nell’america anni ’60, di certo stona moltissimo la scena del drogato che si buca, di cattivissimo gusto, come altre similari che abbondano qua e là (quasi Pizzi avesse voluto fare un reportage sul disagio giovanile piuttosto che una regia lirica); quello che è registicamente proprio totalmente sbagliato è aver trasformato Ulrica, personaggio che nel libretto è autorevole e svela fin dal principio l’esito drammatico dell’opera, in una ridicola Wanna Marchi nel fisico di Gloria Gaynor: che credibilità resta ad un simile personaggio?
Per il resto, le solite cose: le pantomime degli onnipresenti “mimi”, le sfilate di costumi ….. insomma:
NIENTE DI NUOVO SOTTO IL SOLE, ALTRO CHE SCOSSA!
Quindi che dire: l’esperienza Pizzi si conclude perfettamente in linea con il modo in cui si è dipanata, e sinceramente si sente sempre di più l’aria di un rinnovamento che parta da Pizzi e la sua corte dei miracoli e magari coinvolga qualche testa di ponte anche dentro l’associazione Sferisterio (i vari “servi” del “Maestro”).
Comunque Macerata si conferma essere il non plus ultra del provincialismo: se tornassero le forze armate d’occupazione americane, conquisterebbero la città di certo con quattro tavolette di cioccolata, due stecche di sigarette e qualche collant di nylon per le signore …..
Dobbiamo proprio vergognarci di ciò.
@ lirica senza registi
1. E’ in grado di scegliere i cantanti per la voce, il Maestro Pizzi?
2. Cerasi ha ragione: l’impianto apparentemente rivoluzionario vanta precedenti a iosa.
3. L’idea della morte circondata da mimi che si strusciano e si accarezzano (così mi hanno raccontato, perché non vado in Arena dai tempi di Pavarotti e della Kabaiwanska…), forte nell’impatto, ha anch’essa, tuttavia un riferimento alto (quanto voluto non lo so): quello al Pasolini che andava sulle tombe dei soldati ad eccitarsi. Non era pornografia, ma un’intuizione metaforica fenomenale e terribile sul senso della vita. Ma Pasolini raccontava di sé, partendo dal suo. Qui si tratta di un’opera, scritta e concepita in maniera diversa. Nonostante la libertà interpretativa di un regista, continuo a credere nell’importanza di difendere gli autori. Perché se la loro è arte vera, parla anche oggi – sia pure con i suoni e le parole di allora.
@Lamberto
cordiali saluti
http://www.youtube.com/watch?v=oEtyCbJCYwM
Chenska nel ruolo di Amelia –
http://www.youtube.com/watch?v=Sf-41oFCuRk
E’ chiaro che Pizzi non è in grado di scegliere i cantanti e neppure di riconoscere quando ha sottomano una voce adatta al ruolo. Infatti è stato il caso di questa sostituzione improvvida, togliendo la prima rappresentazione al soprano Teresa Romano che la meritava in pieno per la sua vocalità potente e piena e dandola ad una cantante non all’altezza del ruolo (e presumibilmente, pagandola il doppio, visto la chiamata all’ultimo momento, assolutamente ingiustificata). Se vi chiedete dove vanno i nostri soldi, fate molto bene a domandarvelo e a sollevare dei dubbi. D’altra parte sarebbe stato sufficiente ascoltare la Romano nella seconda replica per capire: se qualcuno, per caso, si intende di voci non può non aver colto la differenza. La Romano è una delle non molte cantanti giovani adatte a sostenere il ruolo di Amelia così come l’ha concepito Verdi, ha il volume, la forza, la drammaticità giusta ed è una cantante costantemente in crescita ma Pizzi come può accorgersene? Forse temeva che la potenza della sua voce gli coprisse gli altri…ma guardate che le voci verdiane sono fatte per sentirsi sopra un’orchestra di settanta persone e per raggiungere anche gli spettatori delle ultime file! A meno che oggi non prenda piede l’uso del microfono, allora…certo, ci vuole un cast tutto microfonato. Stupisce che anche il direttore non sia in grado di capire che voci servono in un’opera: magari perché non dare un’occhiata anche al suo curriculum?
Al di la di ogni ragionevole dubbio, anche senza la visione dei BILANCI INTEGRALI (cosicchè si capirebbe dove e come sono stati spesi i soldi) che qualcuno continua a NASCONDERE, mi sembra sia chiaro ed incontrovertibile che chiunque si sia interessato su CM -ANCHE DISTRATTAMENTE- sulla questione della Lirica, dell’Associazione e di tutto quanto gli gravita attorno è concorde su una cosa:
Pizzi (e corte dei miracoli) NON deve (devono) essere riconfermato (i)
Ringraziamo pertanto Pizzi & Company per il lavoro svolto, per i fiumi di denaro spesi, per aver declassato lo Sferisterio e per tutte le altre mirabili meraviglie con cui ci ha deliziato in questi ultimi anni…
AU REVOIR Mr Pizzi….