di Marco Ribechi
Sfarzosa ed elegante, La Vedova Allegra dello Sferisterio fa faville. E’ letteralmente terminata con gli effetti pirotecnici la rappresentazione di debutto del lavoro di Franz Lehár, la prima operetta a sfidare il muro dell’arena maceratese in oltre cento anni di storia.
Per l’evento (leggi l’articolo), che ha costituito l’appuntamento tanto atteso dell’estate, il regista Arnaud Bernard ha scelto la lingua italiana e un allestimento classico, in costumi d’epoca, senza alcun rimando alla contemporaneità ma con il fascino retrò della Belle Époque, periodo storico in cui prendono piede gli intrighi amorosi della bella ereditiera Hanna Glawari e compagnia. Una scelta che appare come l’aspetto più impattante dell’intera messa in scena, caratterizzata da un palco ricco sia di scenografie che di personaggi, animati da balli di gruppo e scene collettive ma senza troppe battute ad effetto capaci di suscitare la sincera ilarità dei presenti.
Tre quadri per altrettanti atti fanno da sfondo all’azione: il primo, in cui domina il bordeaux, allestito come un salotto di feste, il secondo, caratterizzato dal bianco, ricorda una località balneare della Normandia mentre l’ultimo variopinto è il giardino del palazzo Glawari, adibito come locale di feste e danze osé.
A dare il leitmotiv della scenografia, come anticipato dallo stesso regista nell’aperitivo culturale del mattino (leggi l’articolo) degli elementi ricorrenti: dei drappi appesi a dei pali della luce, il cui colore muta in sintonia del dominante di ogni scena, e delle sagome rappresentanti rispettivamente un uomo elegantemente vestito, una donna con l’ombrello e una ballerina di cancan, nell’iconografia simili ai personaggi dei dipinti di Toulouse Lautrec. Su queste scene, capaci di riportare l’immaginario ad oltre cento anni fa, si muovono decine di figuranti di ogni tipo: attori, cantanti, coristi, danzatori, tutti finemente vestiti, in maniera tale da riempire quasi per tutta la durata dell’operetta l’enorme palco dello Sferisterio.
L’inizio della messa in scena è già inusuale e straniante: un corteo funebre di lamentosi sale dai due lati del palco per raggiungere, sulle note di una marcia funebre, la cassa da morto dove riposa il signor Glawari che lascerà tutta la sua enorme fortuna alla sua vedova. Il dolore però è solo di facciata poiché il momento tetro termina con una fragorosa risata e con il trionfo dello spirito goliardico che caratterizza il lavoro di Lehár.
La trama si dipana nel suo delizioso intreccio di equivoci, flirt, gelosie e malintesi, condito da una buona dose di ironia e umorismo. Il Granducato di Pontevedro è in fibrillazione poiché il Barone Zeta teme che Hanna Glawari sposi un forestiero, portando fuori dal suo stato la sua enorme fortuna e mandandolo in bancarotta. Per questo viene assoldato il Conte Danilo Danilovich, segretario dell’ambasciata e in passato già legato ad Hanna da una burrascosa storia d’amore.
Il ritmo incalzante e i dialoghi sono proprio l’aspetto che maggiormente ha portato al trionfo La Vedova Allegra nell’ultimo secolo. I temi toccati con leggerezza sono quelli dell’amore, del denaro e della lealtà, in una società in cui ogni singola donna presentata in scena ha un qualche tipo di frequentazione extraconiugale. Simbolo di queste trasgressioni è un ventaglio, da sempre sinonimo di seduzione femminile, che viene attribuito ora ad una ora ad un’altra moglie infedele.
Fulcro della comicità è il personaggio di Njegus, ovvero Marco Simeoli, che però a volte sembra eccessivamente caricato sia nella mimica sia nelle ricorrenti espressioni in dialetto napoletano che non sempre trovano una vera ragion d’essere. Anche il ritmo delle battute non è sempre frizzante e la vivacità della rappresentazione è affidata soprattutto alle danze, molto curate e fortemente presenti in un’operetta caratterizzata in particolare dai valzer viennesi e dal cancan. Ottima la prova dei protagonisti, Alessandro Scotto di Luzio nei panni del Conte Danilo e Mihaela Marcu, ovvero Anna Glawari che brilla in special modo all’inizio del secondo atto con la romanza della Vilja splendidamente eseguita.
Forse proprio il secondo atto è la parte più intensa e ben strutturata di tutta l’operetta che in ogni caso può essere considerato un esperimento pienamente riuscito, nonostante la sua forse troppo lunga durata causata da alcuni tempi un po’ dilatati. La direzione affidata a Marco Alibrando a volte viene un po’ soffocata dal trambusto di alcune scene e dalla buca il suono non arriva sempre nitido e diretto. Una scelta probabilmente dettata dal desiderio di bilanciare le parti cantante e quelle recitate. Ben nove i minuti di musiche scoppiettanti dal Gaîté Parisienne di Offenbach, che si concludono con il celebre can can, il Galop infernal da Orphée aux Enfers. Omaggiato anche Gustav Mahler che apprezzava moltissimo la partitura, senza poterlo ammettere pubblicamente. Di suo sono state inserite alcune note della Sinfonia n.4 prima del numero magico.
La conclusione delle vicende è freneticamente in crescendo con danze quasi circensi che persistono anche nei saluti finali, battimani del pubblico sopra l’esecuzione dell’orchestra e un’esplosione di fuochi d’artificio colorati che, però, appare forse come la cosa meno elegante della serata.
Tanti gli applausi del pubblico atteso all’uscita dallo Sferisterio da un videomapping che, raccogliendo i tanti presenti lungo la strada, rende bene l’idea del valore del Mof per Macerata.
Questa sera toccherà al Rigoletto “Pulp”, allestimento già collaudato della celebre opera di Giuseppe Verdi. La terza prima invece è in programma la prossima settimana, il 26 luglio con il Macbeth di Emma Dante.
(foto di scena Luna Simoncini)
Bellissimo spettacolo
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Macerata un po’ d’allegria tende a toglierla anche ai più allegri ma bisogna saper reagire.