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Violenza in famiglia, Paolo Crepet:
«E’ ora di parlare di noi
e di ammettere il nostro fallimento»

MACERATA - L'intervista al noto psichiatra e sociologo che sarà protagonista giovedì (12 settembre) allo Sferisterio. Sui fatti di cronaca degli ultimi giorni non fa sconti: «Pensiamo da quanto non chiediamo a nostro figlio come sta. Siamo succubi della più grande azienda del mondo, quella della tecnologia digitale». Riguardo i passaggi intergenerazionali: «Le imprese non sanno come andare avanti»

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Paolo Crepet

di Alessandra Pierini

«E’ ora di guardare dentro le nostre famiglie, di parlare di noi e ammettere il nostro fallimento». Non fa sconti Paolo Crepet, come è nel suo stile. Una modalità la sua chiara e diretta quella dello psichiatra e sociologo che proporrà anche giovedì (12 settembre) allo Sferisterio di Macerata, dove farà tappa con il suo tour “Mordere il cielo”. Tra i temi costanti delle sue disamine, c’è senz’altro la famiglia che in questi giorni è alla ribalta nella cronaca, sia nazionale che locale. A Gagliole venerdì un giovane ha tentato di uccidere i genitori con un coltello per poi rivolgere l’arma verso se stesso. Questa mattina invece un 19enne a San Severino ha aggredito il padre con un bastone. Sono solo alcuni degli episodi in cui la famiglia si mostra in tutta la sua fragilità e nelle sue condizioni profondamente critiche.

Dottor Crepet, cosa sta accadendo?
«Sta accadendo che la scuola è in uno stato disgraziato, le famiglie non esistono più, a meno che non vogliamo chiamare famiglia un signore e una signora che vivono insieme e non sanno neanche dove sono i loro figli. E’ inaccettabile che in questi casi si parli di famiglie in cui tutto va bene. Siamo ridotti veramente male se consideriamo che tutto va bene in una famiglia che ha una bella auto, la casa al mare e ha finito di pagare il mutuo. Ci fa comodo non guardare dentro le nostre famiglie, dove magari non ammazziamo nessuno, ma sono mesi che non ci parliamo e che non chiediamo ai nostri figli come stanno, dove i figli si alzano da tavola e vanno a chattare in camera. Siamo succubi della più grande azienda del mondo, quella della tecnologia digitale che si è messa d’accordo con lo sfascio assoluto delle famiglie. Io lo dico da sempre e sono uno dei pochi. Addirittura i miei colleghi mi contestano e chiamano in causa i neuroni e la dopamina, pur di non parlare di noi e del nostro fallimento. Se siamo così ciechi o se non vogliamo vedere, allora aspettiamo il prossimo funerale».

Invece la scuola? Quali sono le criticità? 
«Se qualcuno pensa che va bene così, allora si tenga il liceo che promuove il 99% degli studenti e che non dà voti, tenetevi voi questo squallore. Davvero possiamo pensare che il futuro non debba basarsi sul merito?»

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Il colonnato dello Sferisterio

La sua tournée si chiama “Mordere il cielo”. Cosa vuol dire?
«Mai come in questo momento e in questo contesto o mordiamo il cielo, guardiamo il futuro e cerchiamo di cambiare le cose o questa è una comunità morta e sepolta».

Da chi deve iniziare questo cambiamento?
«La rivoluzione deve partire da ognuno di noi, dal fatto che abbiamo capito che così non va, se cominciamo a dire che però non è così male e che dobbiamo vedere il bicchiere mezzo pieno, se cominciamo questa solfa che sento ripetere da trent’anni, allora non c’è futuro. Ad esempio nelle Marche, nelle fasi di passaggio intergenerazionale le aziende non sanno come andare avanti. I figli non hanno studiato, hanno ricevuto  soldi e sperano nell’eredità. Questo è il declino della società ed è ben dimostrabile, mi basterebbe mostrarvi cosa accade alle cartiere o agli scarpari. Lo dicevo già trent’anni fa e non mi hanno ascoltato ma già allora avevo ragione».

crepetNon la ascoltano ma comunque migliaia e migliaia di persone leggono i suoi libri e la seguono. Anche allo Sferisterio giovedì avrà un pubblico di più di duemila persone.
«Sono un ottimista bene informato e c’è ancora tanta gente che spera qualcuno che parli chiaro. Io non cerco alcun consenso, se uno è d’accordo con me sono contento se no avanti lo stesso. Sono una specie di profeta, mi seguono, mi ascoltano e mi mettono sul palco poi non so che succede la mattina dopo. Ricominciano tutti a comportarsi come prima perché ricominciare come prima conviene. Se io faccio di tutto ai miei figli e li curo in ogni modo, penso di essere una buona madre o di andare in paradiso. Invece li cresco fragili, talmente fragili che a 25 anni non sapranno affrontare nessuna difficoltà. Se gli darò un’industria o un capannone, arriveranno a mezzogiorno sbadigliando dopo una notte fuori. E’ questo riguarda sia i ragazzi che le ragazze. Ho parlato cn banchieri importanti che mi hanno raccontato come, in banca, si stiano erodendo i risparmi familiari. Il nonno aveva messo da parte, il padre aveva mantenuto, figli e nipoti si mangiano tutto. Quando ti restano tre appartamenti ad Alba Adriatica ti risolvono la vita? Questo abbiamo fatto. Possiamo pensare che il futuro sia aspettare l’eredità?»

E’ però anche vero che il lavoro non è più uno strumento di realizzazione che consente di vivere meglio.
«Tanti anni fa fece il giro d’Italia la frase di Berlusconi che diceva “i ristoranti sono pieni”. Oggi questa cosa è aumentata, quello che non disse allora berlusocni è che, se vai a mangiare l’aragosta, devi aver lavorato per avere denaro per pagarla l’aragosta se no vai a debito. Lo sa un qualunque ragioniere medio. Noi lo facciamo? No.
Poi dobbiamo anche ringraziare anche gli immigrati che fanno quei lavori che ci consentono di avere in tavola un pomodoro o di avere del buon vino. Nelle Marche chi raccoglie l’uva? Ci va un disgraziato, almeno trattiamolo bene».

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