di Donatella Donati
Dei manoscritti di Visso si è parlato abbastanza e la loro esposizione agli Uffizi sta iniziando l’ultima fase. Mi meraviglio che nessuno chieda che sia esposta una incredibile lettera scritta nel 1833 da Giacomo Leopardi alla principessa Carlotta Bonaparte dalla quale si rilevano notizie molto speciali sul poeta e sull’ultima parte della sua vita, notizie che nel film di Martone forse non erano note tanto da sfigurare e quasi ridicolizzare il giovane inutilmente ‘favoloso’. Per far questo prendiamo in mano la storia dei Bonaparte nella quale le Marche hanno una presenza notevole. Nella città di Ascoli Piceno ancora esiste Palazzo Bonaparte e ancora si coltiva la memoria della famiglia da cui sorse poi l’astro fulgente di Napoleone. Si racconta che quando Napoleone divenne imperatore i Bonaparte di Ascoli, discendenti di una famiglia Bonaparte presente nella città nel XIII secolo e considerata dagli ascolani l’origine dei Napoleonidi trasferitisi poi in Toscana e in Corsica, partirono in delegazione per salutarlo a Parigi portandogli , come un loro rappresentante disse, i rispettosi saluti della sua famiglia di antica origine. Napoleone li liquidò con una frase che non dava esito a nessun’altra interpretazione: ‘La mia famiglia comincia da me’ ma questo non toglie nulla agli intrecci che ci sono stati dopo tra i Leopardi e i Napoleonidi.
Carlotta, figlia di Giuseppe, fratello minore di Napoleone, visse a lungo a Firenze .Nello stesso periodo tra gli anni ’20 e ’30 c’era anche Leopardi. Era rimasta vedova di un marito appartenente anch’egli alla famiglia di Napoleone e viveva a palazzo Serristori nella casa della madre. Era conosciuta per la sua fine cultura, la sua arte di pittrice ed anche per la spregiudicatezza della sua vita che l’aveva portata a vivere due anni negli Stati Uniti d’America dove si era rifugiato il padre dopo la caduta di Napoleone. I contemporanei la descrivono come elegante e minuta, una signora distinta come si diceva allora e il suo desiderio di incontrare Leopardi, dopo la fine dei moti rivoluzionari del ’31 e la breve repubblica che ne seguì nella quale Leopardi ebbe la nomina di deputato, fu soddisfatto come Giacomo scriveva alla sorella Paolina e così incominciarono le loro frequentazioni. C’erano molte cose in comune tra loro, una grande disillusione per gli eventi italiani di quel tempo, l’amore per la poesia e la maniera di comunicare seria e affettuosa. Questa comunicazione risulta dalle lettere che si scrissero delle quali finalmente nel 1995 ne fu ritrovata a Parigi una , messa all’asta dalla casa Drout, sicuramente in possesso degli eredi di Carlotta.
L’editore Bérréby, incaricato da Franco Foschi delle traduzioni di Leopardi in francese, ne fece arrivare la notizia a Recanati e Foschi, c’erano ancora i residui dei finanziamenti della legge Leopardi nel mondo, gli diede l’incarico di andare all’asta e entro certi limiti di spesa di comprare la lettera. L’editore la ebbe per 9 milioni e avvertì subito Foschi dell’affare fatto. Era l’estate di quell’anno e Foschi approfittando dei miei frequenti viaggi a Parigi, dove ero socia della società dei poeti francesi e partecipavo alle loro riunioni, mi pregò di andarla a vedere. Fu un momento esaltante, Bérréby la tirò fuori nel suo studio al marais da una cassaforte chiusa in una busta che sembrava intatta e mi lasciò sola con la lettera chiudendo la porta. L’aprii con delicatezza e amore e la rilessi io per la prima volta forse dopo che Carlotta l’aveva ricevuta. Una scrittura di eleganza perfetta quasi un dipinto, delle parole semplici e naturali ma profondamente sincere, un senso di affettuosa sintonia più che amichevole e di naturale e spontanea galanteria. Ve ne presento la fotocopia. Questo è il Giacomo del 1833 alle soglie della partenza per Napoli, quel Giacomo che tutti descrivevano come malato e ipocondriaco, quel Giacomo che degli ultimi suoi quattro anni di vita ,dal ’33 al ’37, è stato descritto dalla cinepresa di Martone quasi come un povero mentecatto.
Credo che questa lettera ci riveli il vero rapporto di Leopardi con le donne, un rapporto franco, senza sensualità ma con profonda galanteria del rispetto, un rapporto tutto alla pari. Morì nel ’37, prima di doversi dolere per la tragica morte di Carlotta. Restata in Italia tra Firenze e Roma rimase incinta e non volle mai far sapere di chi e a un certo punto desiderò recarsi dalla madre a Genova. Partì in compagnia di un medico, di un servitore e di una cameriera ma arrivata a Sarzana, poiché perdeva sangue e si sentiva malissimo, si fermò in una locanda, fu visitata da un noto ginecologo che però non entrò nella stanza dove ella giaceva ma si serviva del rapporto col medico che era con lei e che andava avanti e indietro per riportare notizie e situazioni. Fu necessario chiamare un chirurgo per un taglio cesareo e lì, nella stanza d’albergo, il ventre di Carlotta fu squarciato e ne fu tratto fuori il feto. Il giorno dopo Carlotta morì. Un’altra donna vittima dell’oscurantismo, dell’incompetenza e dei coltelli di cui ancora oggi si fa tanto uso per spezzare la vita di un ‘innocente. Giacomo aveva già pianto a 18 anni per “lo strazio di una giovane fatta trucidare dal suo corruttore col suo portato per mano ed arte di un chirurgo” e una sua canzone censurata ma della cui pubblicazione io mi sono occupata determinò in lui un dolore fortissimo e una rabbia violenta per il dramma d’amore. La canzone ancora oggi è censurata ma io ne obbligherei la lettura a scuola sicuramente al posto del Passero Solitario, certamente lirica magnifica ma vagamente irreale e innaturale.
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Veramente ci manca la parte più significativa: “Quant à moi, Vous savez que l’état progressif de la societé ne me regard pas du tout. Le mien, s’il n’est pas retrograde, est eminemment stationnaire. Toujours mes occupations consistent à tâcher de perdre tout mon temps; je n’ecris pas, je ne lis pas, je fais tous mes efforts pour penser le moins que je peux; une ophtalmie fort obstinée, qui me rend absolument impossible toute espece d’application, est venue me perfectionner dans la nullité de ma maniere d’être.
M. Niccolini, qui se porte bien, et qui travaille autant que je dors, a été charmé des choses aimables que Vous m’avez mandées à son egard; il me charge de vous en temoigner sa vive reconnaissance.
Je n’imiterai pas, Madame, votre modestie, qui vous fait dire que votre lettre est longue, quoique elle m’ait paru bien courte à moi. Je conviendrai que celle-ci n’est pas longue, quoique elle puisse le paraître: je dirai de plus que le plaisir de m’entretenir avec Vous me transporterait bien loin du laconisme, [si] mes yeux ne me refusassent inexorablement leur ministere. Obligé d’être discret, je me bornerai à vous faire mille compliments de la part de mon cher Ranieri (auquel je me suis reuni, comme je l’espere, pour toujours), et à vous rappeller que je suis, Madame, et serai toute ma vie
Votre très-devoué serviteur Leopardi
Perché Leopardi nonostante la semicecità scrive la sua ultima lettera autografa a Carlotta Bonaparte, a questa femmina gobba, lontana nello spazio e nel tempo, che non è per niente tra i suoi corrispondenti abituali? che cosa deve dire, che cosa deve confessare di così necessario? di talmente intimo e straziante che può essere rivelato solo a una lontananza: che non gliene importa niente del mondo, della società e della vita… che vive come un mentecatto… soprattutto evidentemente che spera di vivere sempre con Ranieri… di cari inganni il desiderio e la speme sono spenti… ma la speme d’Antonio non è spenta per niente… un filo di pietà si abbevera a un porcospinello…