La presentazione del libro di versi di Guido Garufi, Fratelli, edito da Aragno, ha davvero “affratellato” un pubblico folto ( sono state aggiunte due file di sedie ed alcuni sono rimasti in piedi ) ieri l’altro, presso la Sala Castiglioni della Biblioteca comunale “Mozzi-Borgetti”. Affratellato perché l’evento è stato importante e persino commovente. Maurizio Verdenelli ha condotto la serata, rompendo il ghiaccio, prima che iniziasse il suo percorso critico Enrico Capodaglio. Lo ha fatto da giornalista, ricordando che Garufi per oltre un decennio ha collaborato col Messaggero, ha ricordato le res gestae di quegli anni, le “invasioni” in redazione dei due ‘Dioscuri’, Remo Pagnanelli e Guido, il percorso sul ‘Male di vivere in provincia’ condotto da Luca Patrassi sulle colonne del quotidiano romano ed inaugurato proprio dall’autore de ‘Preparativi per la villeggiatura’.
Sullo schermo, in sala, le immagini di alcune copertine dei libri di Garufi, dai saggi su Pascoli a quelli su Montale, l’antologia sulla poesia delle Marche, e tante foto, testimonianze dell’amicizia tra Garufi e Mario Luzi. Magistrale la lectio di Capodaglio ( lo ricordiamo come redattore di “Nuovi Argomenti” o come autore e critico di centrali snodi del secondo Novecento ) che ha percorso i quarant’anni di scrittura poetica a partire dalle prime raccolte ed entrando, da par suo, nel merito di Fratelli. La sua è stata, anche a sentire i commenti, una vera “introduzione” alla poetica del nostro autore.
I riferimenti precisi, mai casuali, sempre argomentati, sono scesi all’interno, alla genesi del discorso poetico di Garufi. Tanti gli spunti, tutti dimostrati nelle lettura dei testi, come ad esempio le fonti, persino greche e comunque classiche della raccolta di versi, da Platone a Coleridge, da Agostino (quello prima della conversione, ha precisato Capodaglio) ad Eliot e Montale. E poi una diade indissolubile per l’autore: Vittorio Sereni e Mario Luzi. La poesia di Garufi, ha sostenuto Capodaglio, appartiene con autorevolezza al registro del Grande Stile, nulla è casuale, e le volute citazioni di “fratelli” autori non sono vere citazioni, sono corpo interno e omogeneo alla poesia, ne fanno parte essenziale, sono un unicum vero e continuo della fondamentale tradizione del nostro Novecento alla quale Garufi si rifà, disdegnando la scrittura da “laboratorio”, la falsa avanguardia,e il balbettio dei versi studiati a tavolino: versi senza storia e senza memoria. E ancora Capodaglio si è soffermato su certi simboli ricorrenti nel testo: l’angelo, la luce per piccoli bagliori, piccoli e intermittenti, (qui è intervenuto Garufi ricordando che come per Montale la luce che conta è quella del fiammifero, dell’acciarino, contrapponendola alla “fulminazione” di San Paolo sulla via di Damasco), il tema borgesiano del Libro come summa della propria vita ( qui ancora Garufi ha sostenuto che non ha scritto cinque libri, ma sempre e solo Uno) e poi, ha aggiunto il relatore, il timbro centrale dell’innocenza, della perenne infanzia, della forza che da quel luogo scaturisce e, ancora, il “candore”, inoltre la centrale compresenza di vivi e morti, tutti uniti dentro una identica temporalità.
Spazio anche per la poesia ‘civile’ dell’autore che ha voluto in coda a ‘Fratelli’ alcune liriche tratte da ‘Le poesie del disamore’ da lui scritte in redazione al ‘Messaggero’ con dedica iniziale a Remo Pagnanelli. Nella raccolta versi sono indirizzati a Maurizio Verdenelli, all’allora giovanissima collaboratrice (oggi ‘firma’ del giornale romano) Rosalba Emiliozzi e, tra altri ancora, ad un assessore comunale la cui identità è rimasta oscura.
Sorpresa finale per il pubblico: Maurizio Boldrini ha letto cinque inediti, una lettura sentita, non forzata, senza alcuna enfasi, massimamente espressiva. Applausi meritati.
C’è anche stato un breve dibattito, ben oltre i termini canonici della chiusura, alle 18 e 30. I “fratelli” si sono trattenuti fino alla 19 e 30. Una vera scommessa per un libro di poesie, una sorta di vittoria per la poesia.
(foto di Luciano Carletti)
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Viviamo sotto cieli cupi e ci sono pochi esseri umani. Per questo anche le poesie sono poche. (Paul Celan)