“La spica fa l’angì,
curi a mete contadì”

USI E TRADIZIONI - Tempo di mietitura

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Un momento della rievocazione della mietitura

Un momento della rievocazione della mietitura

di Mario Monachesi

Arrivato giugno e scelto, grazie all’esperienza “de lu vergà”, il momento giusto, né troppo presto per evitare problemi all’atto di trebbiare, né troppo tardi affinché il grano molto secco non avesse a perdere eccessivi chicchi, iniziava la mietitura. “La spica fa l’angì, curi a mete contadì”. Prima di cominciare, c’era chi usava andare dal curato a chiedere la benedizione per sé e per la famiglia, in modo da mietere con tranquillità anche la domenica. Per soddisfare tale precetto esisteva inoltre la messa dei mietitori che nelle chiese di campagna veniva celebrata alle tre del mattino. Siccome la mietitura, oltre a coronare il lavoro di tutta un’annata, era anche occasione di incontro, specie tra giovani, da tutti era considerata una vera e propria festa. Tanto che gli uomini, almeno nell’800, erano usi presentarsi a questo appuntamento con il loro costume migliore, comprendente anche una candida camicia. I giovani si appuntavano sul petto un mazzetto di spighette e basilico, proprio come facevano di domenica. Le donne anch’esse vestivano a festa, indossavano le gonne più belle, i più bei guarnelli, fiorati fazzoletti sulle spalle e larghi cappelli di paglia ingentiliti da fiori raccolti lungo la strada.

mietitura1Il lavoro, che iniziava all’alba, era uno di quelli che avveniva a “rajiudu”, cioè con lo scambio di opere tra tutto il vicinato. Se il fondo era vasto, il colono ingaggiava anche “li metarelli “, in special modo giovani, che dalla montagna scendevano a mietere a valle. Il lavoro si svolgeva a coppia, un uomo e una donna posizionati a breve distanza tra loro. Gli uomini usavano la falce accuratamente battuta e ogni tanto affilata dalla cote che tenevano a bagno nel corno di bue allacciato alla cintura, le donne che li seguivano raccoglievano il falciato e mettevano “a barzu”, cioè con un fascetto di spighe legavano “la còa” ovvero il covone. Altre, con la falcetta, intervenivano dove non era potuta arrivare la falce. Sia gli uomini che le donne per proteggersi le dita usavano “i cannelli”, rudimentali protezioni che anticamente erano di canna, successivamente di latta. Per ultimo passavano le “rcojerelle, donne “a casa a ‘nnaulu” (di paese) che per guadagnare la giornata raccoglievano le spighe rimaste per terra. Spesso tra i mietitori si innescavano accese gare e nei confronti della coppia che rimaneva indietro venivano indirizzate le burle più spietate. Se in mezzo al grano era stata seminata erba da foraggio, il taglio veniva fatto lasciando più o meno venti centimetri di stoppia. Data la fatica e il caldo, la vergara o altra persona di famiglia passava spesso tra i mietitori con la “trufa” o “vrucchittu” ( piccola anfora di terracotta ) a portare da bere, il più delle volte vino, alle persone impegnate. Chi mietendo incontrava una delle croci con la palma benedetta, piantata il 3 maggio, in segno di ringraziamento al Signore vi legava un mazzetto di spighe.

Trebbiatura Piediripa (4)Accompagnavano questa festa sia i canti “a batoccu” che quelli “de lo mète”: “Con questo, bello, non ci ho mai cantato; vòlemi bene, ch’io bene ti vojo. / Sull’ortu del curato / c’è una pianta de gersomì, / e su la mejo rama / ci ha fatto lu nidu lu cardillì. / Canta, cardello mio; canta, cardello. / Per la prima volta lo saluto / ceritanello mio, ceritanello. /” ecc. ecc. Oppure: (se la vergara tardava a portare da bere uno stornello sollecitava il vergaro )  Se vò che te lo mèta lo grà tua, famme lu varzu e legame la còa; / se vò che te lo mèta accanto tera, / porta la trufa e la patrona vella./ Se la patrona non porta lo cacio / le coe te le lego tutte a buscio”. A sera, formati da 17 a 21 covi, si facevano, i cavalletti a croce greca. Durante tutta la giornata erano tanti anche i pasti che venivano consumati. Alle otto, colazione con la frittata, alle dieci, zuppa di pane bagnato, condito con sale, olio e aceto, (oppure lonza sfritta) a mezzogiorno “merenna “, che si faceva all’ombra dell’albero più frondoso e su di una bianca tovaglia stesa a terra, con minestra di taglierini con brodo di osso di prosciutto (oppure pasta fatta a casa). Dopo di che un riposo di mezz’ora o tre quarti, spesso trascorso in buonumore tra spiritosi motti e spinti indovinelli. Alle sedici ” lu voccó ” con salato o crescia, in molte famiglie si usava cuocere l’oca, un altro ” voccó ” si ripeteva, al volo, al calar della sera, verso le ventidue cena con insalata, pane e vino.

Quando durante questo periodo capitava la pioggia, il proverbio di turno era: “fugghja lu mititó / che magnimo lu pulentó” (la pioggia d’estate fa bello il granoturco). Alla chiusura della mietitura si festeggiava sull’aia ballando “lu sardarellu” al suono “dell’urghinittu”, ma senza fare tardi perché la stanchezza aveva il sopravvento. Dopo qualche giorno, il contadino andava dal padrone a portargli sia “lu cuntu de li cavallitti”, che comunicava con un mazzo di corrispondenti spighe, che “li gallitti o pollastri de lo mète”.



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