di Giandomenico Cicchetti
Per gli stoici, come pure per i nipponici, e molto più tardi per i romantici, il suicidio è atto di estrema, definitiva ribellione: si potrebbe mai mettere in atto una protesta più forte di quella del rinunciare alla propria stessa vita? E quale messaggio più forte, più viscerale di questo macabro sentore potrebbe mai trasmettere la poesia? Pure, questa ribellione rischia di collimare con la più profonda rassegnazione: in virtù del tremendo pricipio per il quale la sorte riesce a proiettare un raggio di vanità e di ridicolo persino sugli intenti più nobili; e il grido, furioso, della propria rabbia al mondo, può mutarsi improvvisamente nel computo delle proprie lacrime atterrite.
Nel 1968 Elsa Morante pubblica uno dei suoi capolavori, Il mondo salvato dai ragazzini; libro singolare, di difficile classificazione, tanto che la Morante stessa scrive di esso: <<è un libro, se per libro s’intende un’esperienza comune e unica, attraverso un ciclo totale (dalla nascita alla morte e il contrario). Ma se per libro s’intende un prodotto d’altra specie, allora questo non è un libro>>. Le poesie e i pometti che compongono Il mondo salvato dai ragazzini, ci rapiscono grazie alla loro intensità, alla crudezza di alcuni tratti e alla delicatezza di altri; sono scritte con stili diversi, con diverso lessico, come se l’irrequietudine dell’animo trasparisse dall’irrequietudine della lingua, utilizzata in modo sempre differente: più che alla diversità del contenuto, omogeneo in tutto il libro, queste differenziazioni paiono imputabili a variazioni umorali.
Come un compositore sinfonico che affida il tema di un movimento a strumenti di volta in volta diversi per evidenziarne la richezza e la complessità, per far sì che l’ascoltatore possa meglio percepirne tutte le sfumature e le implicazioni, così la Morante utilizza le voci e le vite di diversi personaggi: per declinare in tutte le varianti possibili il suo requiem: il suo canto funebre: che comincia nell’atmosfera spettrale di un silenzio illune e termina fra sospiri di rimpianto e nostalgia; nel mezzo, sta un incantevole canto di ribellione: soltanto chi si ribella esce dalla sterminata cerchia degli Infelici Molti per entrare a far parte dei Felici Pochi, e salvarsi dalla bestia nera del potere che – come la Morante ha scritto in un altro capolavoro, La storia – “immerda” sia chi lo esercita sia chi lo subisce. Prescindendo dall’irritante stereotipo dell’artista maledetto e ribelle, possiamo egualmente tentare di rintracciare i componenti della genia del Rimbaud: i poeti eternamente adolescenti e randagi che hanno ricercato nella ribellione la salvezza; e che, troppo spesso, hanno trovato la dannazione.
Luigi Di Ruscio, Amelia Rosselli e Helle Busacca hanno tre esperienze molto diverse fra loro. Quando, nel 1957, Di Ruscio emigra da Fermo in Norvegia per fuggire la disoccupazone e la povertà, ha 27 anni e ha già pubblicato la sua raccolta d’esordio; e in Norvegia morirà nel 2011: Di Ruscio è un espiantato, non tornerà più ad abitare stabilmente nel suo paese; tuttavia, deve riconoscersi che è un espiantato di una specie alquanto particolare: continuerà a scrivere in Italiano e a pubblicare in Italia, le sue opere non passeranno mai inosservate nell’ambiente letterario italiano: Le streghe s’arrotano le dentiere, nel 1966, sarà pubblicato con una prefazione di Salvatore Quasimodo e Enunciati, nel 1993, sarà curato da Eugenio De Signoribus; ma ancora più interessante è che Di Ruscio contiuerà a parlare della sua terra, che le incursioni dialettali nell’italiano dei suoi versi non cesseranno mai, che l’antologia delle sue poesie scritte tra il 1953 e il 1999 – e pubblicata proprio nel 1999 – reca il titolo di Firmum. Lineare è dunque, sotto questo punto di vista, il percorso di Ruscio; mentre quello della Rosselli è molto più travagliato e frammentario: nata in Francia ed emigrata, ancora bambina, a seguito dell’assassinio del padre e dello zio (rispettivamente, Carlo e Nello Rosselli) per mano dei fascisti, la Rosselli abitò dapprima in Svizzera, poi, con l’arrivo dei nazisti in Francia, si trasferì in Inghliterra; emigrò alla volta del nuovo continente, passando per il Canada, e giungendo agli Stati Uniti; tornò per un breve periodo in Italia, poi si trasferì a Londra, dove terminò gli studi; nel 1948 tornerà nuovamente e definitivamente in Italia, e l’anno seguente subirà un nuovo trauma: la morte della madre, che muore a Londra, mentre lei è in Italia. La Rosselli stringerà un’intensa e fraterna amicizia col poeta Rocco Scotellaro, la cui prematura morte contribuirà ulteriormente a destabilizzare la poetessa, costituendo per Amelia l’ennesimo, insopportabile lutto. Infine, ancora completamente diversa, è la vicenda della Busacca: fino ai setti anni vive nel paese natale, in provincia di Messina; si trasferisce a Bergamo, poi a Milano per studiare lettere classiche; dopo la laurea eserciterà – oltre alla scrittura e alla pittura – la professione di insegnante in svariate città italiane, Firenze per ultima, dove morirà: la Busacca non metterà mai radici, non si sposerà mai, non troverà mai un luogo dove prendersi cura della sua vita, oltre che della sua arte: il suo esilio, dunqe, pare in realtà tutto interiore: pare consistere nel relegarsi forzatamente in una dolorsa dimensione emotiva: l’angoscia della solitudine; provocata dal suicidio del fratello Aldo, dalla disgregazione della famiglia, dalle delusioni amorose.
Che cos’hanno in comune Luigi di Ruscio, Amelia Rosselli, Helle Busacca? Probabilmente, innanzitutto, sono accomunati da una tendenza ad essere messi da parte, accantonati: ingiustamente; forse, condividono anche lo stesso mauavais sang rimbaldiano. Leggendo Firmum di Di Ruscio, Variazioni belliche della Rosselli, I quanti del suicidio della Busacca, avvertiamo subito un’affinità del timbro del canto; un canto arrochito dall’angoscia della rabbia: il registro è greve, l’andamento rapido, in Di Riuscio, uniforme in modo martellante, scevro da pause o accenti di punteggiatura, un unico flusso ininterrotto, perfettamente misurato nel suo essere fuor di controllo: <<tutta una variante della stessa angoscia>>, come leggiamo nella poesia che chiude l’antologia Firmum; nella Rosselli, come ha rilevato la critica, la punteggiatura ha invece la funzione opposta, serve a coadiuvare la musicalità dissonante, da composizione contemporanea, del verso, come se la pagina fosse uno spartito: i punti e virgola e i due punti, come i punti esclamativi, tanto più efficaci quanto fuor di luogo, sono come alterazioni e cambi di tempo: sono diesis e bemolle, pause di singultanti sedicesimi, che scandiscono l’irregolarità della musicalità e rendono atonale la composizione: raggiungendo un’insospettata armonia; nel caso della Busacca, ci è dato riscontrare una sorta di via di mezzo tra le due conclusioni estreme: la punteggiatura non viene completamente abolita, né viene utilizzata alla stregua di un singolare strumento compositivo: piuttosto, ha una sua programmatica irregolarità, una funzione enfatica che, assieme ad altri elementi della poesia della Busacca (la prosasticità, le descrizioni vivide e crude, gli stralci di lettere del fratello suicida inseriti tra i versi, le citazioni ricercatissime abbinate ad aneddoti della più squallida quotidianità, le teorie scientifiche combinate con invettive e imprecazioni), contribuisce a creare lo stile unico di un poema che è un grido di rabbia e disperazione: di ribellione e di morte: ne risulta un registro che tende ad essere impudico, sguaiato, stridulo, nelle sue invettive più dure e spietate: ed è forse in quei momenti che, sorprendentemente, ragginge il suo apice poetico.
Due forti sentori determinano i versi e scaturiscono, ancorché in modi differenti, dai versi di questi tre grandissimi poeti:
l’esilio e il suicidio; sentori, non eventi; ma spesso ciò che non viene vissuto, ciò che è omesso, ha lo stesso peso dei grandi accadimenti: proprio perché fa venir meno la coincidenza tra l’interiorità e l’avvenimento esteriore, rendendo difficoltosa la già ardua operazione dell’identificarsi nella realtà da cui si è circondati: se il suicidio di Aldo è per Helle un evento irremovibile, una tragedia che la segnerà a vita; se per la Rosselli il suicidio è l’evento ultimo che pone fine ai suoi giorni, che – presumibilmente – costituisce la via d’uscita dalla follia, dalla malattia e dalla depressione che la affliggevano negli ultimi anni della sua vita, ma è anche coronazione del costante sentimento di morte che pervadeva la poetessa, scaturito dai traumi dei lutti subiti nell’arco della vita; per Di Ruscio, invece, il suicidio rimane mero sentore, inattuato, ma ben presente nella poesia e nel poeta, che scrive: <<invece di suicidarmi decisi di vivere come se fossi morto>>.
Basta leggere una manciata di versi di questi poeti per rendersi conto che i lapsus e le ripetizioni che li accomunano e li caratterizzano, la tendenza ad articolare – tramite riprese e ripetizioni – un unico tema in tutte le sue varianti, l’energia distruttiva che promana dalle loro poesie, sono un tutt’uno; un’unica ribellione che presenta differenti declinazioni: se nella Rosselli quest’inquietudine assume i lineamenti di un’ansia metafisica, dove persino le voci che vengono dai bar smentiscono i dubbi che nella notte sorgono sulla fede e miriadi di possibili “se” passati al vaglio dei versi soccombono al sentimento dell’impossibilità dell’amore, nella Busacca questa ribellione si incarna in oggetti e cose tanto materiali da trasfigurarsi in simboli d’orrore: la lampadina che veglia il sonno dell’ingegnere suicida, Aldo Busacca, la nebbia che avvolge il mattino della sua nascita, l’inidirizzo esatto dell’appartamento in affitto dal quale Helle viene cacciata: la Busacca ci fa vedere le croste di neve, il registro della scuola, le lettere del fratello: <<ma vedo anche la morte>>, afferma perentoria e orripilata! … sconvolta da questa morte subdola, infida, ingiusta: questa morte acquattata fra gli oggetti che costituiscono l’arredamento materiale e quotidiano delle nostre vite. Egualmente, Di Ruscio vagabonda <<per le strade con gli occhi sentimentali della fame>>, in una perenne condizione di esilio, scacciato a cinque anni dalle ginocchia della nonna; descrive il dramma della vita delle persone che ha intorno, degli umili, dei solitari, dei folli; svolazzando tra gli incubi <<come un gallo spiritato>>, da buon discendente di Rimbaud sa che soltanto rimanendo sospesi tra la vita e la morte si può acquisire <<la veggenza la conoscenza di tutte le cose>>; Di Ruscio descrive la gatta in calore, i cani indomiti che vorrebbero azzannare il vento … ma la conclusione sembra essere, ancora, un’impossibilità decretata da qualche insondabile, inquietante mostruosità: <<e cosa dovrei decidere in quest’ora di notte/ i pensieri s’attaccano ai muri e alle pietre/ la morte s’arrota la dentiera sopra i tetti>>.
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