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di Maurizio Verdenelli
Seduti in quel caffè non pensavamo a…
No, non era il 29 settembre della celebre canzone, ma il 27 dicembre e non era un caffè ma la ‘Botteguccia dei Vecchi sapori’ a Colfiorito, ultima stazione di posta prima delle Marche (o l’Umbria). Venanzo Ronchetti ed io, per Cronache Maceratesi (leggi l’articolo) non pensavamo di fare lo scoop di fine anno, tale da contenere lo spazio tra le news a Letta o Renzi e via elencando.
Sistemati su un poco agevole tavolinetto, detto ‘del prete’ che Stefano, il padrone di casa aveva riservato a noi, alle molte portate della cena e ai tanti fogli e fotografie di una vita -quella di Venanzo- passata tra il negozio di barbieria/parrucchieria, l’ufficio postale e il comune di Serravalle di Chienti da ricostruire dopo il terremoto (Ronchetti vuole scriverci un libro) all’improvviso avevo chiesto: “Filippo Bartoli, ‘quello’ della R4 del caso Moro, come sta?”. ‘E’ morto a Natale’. “Cooome?!”. Venanzo traducendo la mia meraviglia in relazione alla propria inopinata assenza ai funerali, come se la conoscessi già, quasi si era scusato: “E’ vero, non sono riuscito ad andarci…me ne dispiace molto. Filippo era un amico, ha sofferto tanto per una vicenda molto più grande di lui che ha minacciato di travolgerlo: tutto per il furto della sua auto divenuta la più famosa d’Italia…”.
Tornata ad esserlo, celebre la R4, pure di recente con le rivelazioni dell’artificiere Vitantonio Raso intervenuto, oltre 35 anni fa, con il maresciallo Giovanni Circhetta per ‘bonificare’ la vettura abbandonata dalle Brigate Rosse in via Caetani. Raso -scoprì il corpo di Moro sotto la coperta- ha infatti scritto che l’intervento, quel 9 maggio 1978, avvenne alle ore 11, due ore prima della telefonata delle Br e che sul posto c’era insieme con il suo staff il ministro Francesco Cossiga. Nessuno, per l’antisabotatore (che ne scritto nell’autobiografia “La bomba Umana”) avrebbe manifestato sorpresa.
La morte, avvenuta a Natale, del marchigiano diventato ‘eroe’ per caso in una tragedia epocale per la nostra storia repubblicana, lanciata da ‘cronachemaceratesi’ è stata in un amen ‘la notizia’ più seguita dalla ‘rete’, dalle agenzie, dai quotidiani e dalle emittenti, in questo fine 2013.
Dice Ronchetti: “Filippo, quando tornava da noi, ci raccontava com’era tutto cominciato. Con la moglie Pasqualina, in luglio, passeggiava per il centro di Roma (dov’è rimasta una figlia) quando intorno alle 23.30 era stato raggiunto e quasi circondato da quattro, cinque uomini: agenti in borghese. ‘Venga con noi alla Centrale’ era stato l’invito. E Filippo sdrammatizzando, alla ‘marchigiana’: ‘La Centrale …del Latte?!”. Alla Centrale di Polizia, il marchigiano avrebbe passato l’intera notte: otto ore di interrogatorio! La sua R4 rubata, con dentro il corpo di Moro, gettava ombre inquietanti anche su di lui, vittima del furto. Poi gli estenuanti interrogatori a Rebibbia agli ‘uomini delle Brigate Rosse’, come li aveva chiamati Paolo VI, cui lui era costretto ad assistere come teste ma con il timore di un coinvolgimento grave. Timore che sembrò un giorno concretizzarsi quando in carcere qualcuno lo chiamò: ‘Bartoli!’ (o fors’anche signor Bartoli, la memoria qui non era troppo sicura)”.
Continua Ronchetti: “Filippo a quel punto raccontava: ‘Ho pensato che era arrivato il momento sempre segretamente temuto: che, cioè, qualcuno di quei terroristi fingesse di riconoscermi. Sudai freddo per alcuni interminabili secondi prima di voltarmi verso chi m’aveva chiamato. Che gioia riconoscere allora in uno dei cuochi di Rebibbia, un compagno del mio servizio militare, tanti anni fa. Lo abbracciai a lungo con immenso sollievo. Chi poteva immaginare una coincidenza di quel genere in quel luogo dove non si sapeva, dati i tempi, se uno ne fosse uscito davvero!’.
Ancora il v.sindaco di Serravalle:“Tutto avrebbe chiesto Filippo meno la notorietà. Ecco perché aveva deciso, negli ultimi tempi, di lasciare Roma, la città di una vita di lavoro e tornare nella sua confortevole residenza di Dignano sull’altipiano”. Un posto bellissimo che aveva affascinato un ‘vicino’ illustre di Bartoli, il famoso clinico prof. Giuseppe Giunchi che per amore del luogo aveva accettato di esserne l’amministratore, il sindaco di Serravalle di Chienti. In quei luoghi dove un giorno, nel ’98, a Cesi, sarebbe stato ospite papa Giovanni Paolo II°, ‘salvato’ dal luminare recanatese dopo l’attentato e lo stesso Aldo Moro, anch’egli curato da Giunchi. Dunque la coincidenza di tali nomi e di tali eventi, seppure per una sintesi di un attimo, fecero pensare a Serravalle come ad un nuovo ‘caso Gradoli’. No, il triangolo inquietante del terrorismo non era certo in questo altipiano, epicentro di movimenti sismici.
Una suggestione che ha voluto far sua il consigliere provinciale Daniele Salvi che l’altra sera ha proposto un segno per ricordare ‘quel pezzo di storia’ che è la R4 rossa. “Sarebbe bene, se possibile, che quell’auto -dice l’esponente del Pd- entri nelle disponibilità delle istituzioni, a partire da quelle locali come il comune di Serravalle di Chienti, che tra l’altro annovera tra le sue figure Giuseppe Giunchi. Allestire una sala del ‘memoriale’ o della ‘memoria’ che conservi quella Renault 4 rossa, simbolo falsamente evocativo per i brigatisti, e invece simbolo di forza, riscatto e virtù civiche per chi quella violenza ha combattuto e per chi ha il dovere di ricordare e impedire che qualsiasi ideologia possa anche diventare strumento di violenza, sarebbe un modo degno di onorare il senso profondo di una vicenda tragica”.
La Renault rossa, in effetti, é stata costantentemente evocativa: un’icona quasi dell’atto finale del Caso Moro. Alla vettura lasciata dalle BR in via Caetani significativamente a metà tra Piazza del Gesù (sede della Dc) e via delle Botteghe oscure (sede del Pci) ha dedicato un’approfondita ricerca nel libro“L’auto insabbiata” il collega Giorgio Guidelli, pesarese, giornalista de ‘Il Resto del Carlino. Indimenticabile il fotoreportage-scoop di Guido Picchio con al centro Filippo Bartoli, la moglie e l’auto rossa nel giardino della casa romana. “Il taxista che mi portò a destinazione, volle conoscere Bartoli e vedere sopratutto la vettura ‘testimone’ della drammatica fine dello statista dc. Una grande emozione per lui: a Roma tutti avevano vissuto ancora più profondamente che altrove quella tragedia consumata nel ‘cuore stesso’ della Capitale. Grato per quell’opportunità, il taxista volle addirittura scontarmi la tariffa. Fu un pomeriggio di forti emozioni: quelle lamiere rosse, rovinate dal tempo, ci trasmettevano per intero il peso di una tragedia che aveva sconvolto il Paese”.
Intanto ecco emergere un nuovo giallo nel profondo rosso di questa vicenda: la morte di Prospero Gallinari, un anno fa, il 14 gennaio 2013, il ‘carceriere’ di Aldo Moro, colui al quale il leader democristiano aveva confidato i segreti della politica italiana vissuta da protagonista.
Dice Marcello Di Dio, per tre anni il compagno di lavoro a più stretto contatto con l’ex capo delle Br. Il quale, da parte sua sua, aveva trascorso i ultimi 18 anni di vita come magazziniere all’Istituto Stampi di Reggio Emilia (produce carte per alimenti, tra cui i celebri involucri del ‘Bacio’ Perugina e delle specialità della Ferrero) racconta: “Prospero non è morto com’è stato scritto da tutti i giornali nel garage del suo appartamento popolare alla periferia di Reggio, a duecento metri da dove abito anch’io. E’ deceduto alla guida della Fiesta rossa, con la quale stava recandosi al lavoro quella mattina. La vettura ferma contro un muretto ai lati della strada fu ‘scoperta’ da alcuni passanti: dentro Gallinari, fulminato da un infarto. Cardiopatico, qualche anno prima, si era già sottoposto ad un intervento presso l’ospedale cittadino. Chi scoprì quel corpo senza vita dentro la Ford, avvertì la Questura e la compagna dell’ex bierre, che lui chiamava ‘Giava’ (la prima parte del cognome). La notizia arrivò di lì a poco anche in fabbrica. Per due, tre giorni fummo ‘invasi’ dai giornalisti a caccia di scoop. Paradossalmente, tuttavia, la versione della morte di Gallinari, stroncato nel garage, non cambiò mai. Nessuno di noi 70/75 compagni di lavoro sentì il bisogno di rettificare quella ‘verità’ ufficiale”. ‘Verità’ che resta nella biografia dell’ex capo bierre pure in Wikipedia. Un mistero, l’ultimo, destinato a restare tale nello stile dell’estrema riservatezza di Gallinari.
“Ai suoi funerali vennero in tantissimi a cominciare da Renato Curcio -ricorda ancora Di Dio- I giornali ne parlarono con un’enfasi che ritenni eccessiva per il rispetto che si doveva alle vittime della lotta armata. Pochissime persone, tuttavia, erano intervenute qualche anno prima alla presentazione, nel centro di Reggio, all’autobiografia di Gallinari: ‘Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse’. Tutti però comprammo il libro anche se in fabbrica Prospero aveva negato qualsiasi dedica scritta, dichiaratamente per evitarci sempre possibili ‘coinvolgimenti’ dato il suo passato. Seppure noi lo ritenessero sul lavoro, la correttezza fatta persona. Gallinari era il primo a fuggire dal suo passato e se poi qualcuno artatamente tentava di sapere ‘qualcosa di lui’, faceva in modo di sviarne il discorso. E a livello sindacale lui non s’impegnava”.
Marcello Di Dio conclude: “Devo confessare una cosa sperando che si capisca nel senso giusto. Del Prospero Gallinari magazziniere, del compagno di lavoro esemplare, in fabbrica è rimasto un buon ricordo. Perché negare? Come cittadino appariva recuperato. L’ex ‘carceriere’ che si era battuto perché Aldo Moro fosse salvato, non aveva più nulla del terrorista che nascondeva ancora misteri, forse terribili”.
(Foto di Guido Picchio – vietata la riproduzione, anche parziale)
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bella storia e soprattutto complimenti a Maurizio Verdenelli che ha saputo raccontare una storia a lieto fine in una tragedia .
Soprattutto ottima sceneggiatura x un film