di Gabor Bonifazi
La leggenda del santo bevitore vuole che le migliori pagine della letteratura siano state scritte in stato di ebbrezza, da George Byron a Edgar Alan Poe, da Charles Baudelaire a Dylan Thomas fino a Charles Bukowski, probabilmente ispirati da chi amava trascorrere gran parte del proprio tempo all’osteria in compagnia di avventori occasionali che, quando si lasciavano andare – in vino veritas – si giustificavano sostenendo che buon vino fa buon sangue o che era meglio puzzare di vino che d’olio santo. Byron, inoltre, andava molto fiero della sua abilità di nuotatore, tanto che quando Polidori, il suo irritante e vanitoso compagno di viaggio in Italia, ebbe l’ardire di chiedergli in che cosa si sentisse superiore a lui, Byron replicò scherzosamente: «Credo di aver già menzionato quattro cose: posso nuotare per quattro miglia, scrivere un libro che venda quattrocento copie al giorno, bere quattro bottiglie di vino e… Ho dimenticato qual è la quarta, ma non importa…». D’altra parte, anche Hemingway era un gran bevitore, visto che a Venezia tracannava tre bottiglie di Valpolicella a pranzo. Invece l’architetto Filippo Brunelleschi doveva essere un astemio visto che, quando a Firenze dirigeva il cantiere di Santa Maria del Fiore, provvedeva personalmente ad annacquare il vino dei muratori che salivano sui ponteggi per chiudere quella misteriosa cupola.
Al contrario di questo genio dell’architettura, pittori e scultori bevono da barbari, tracannando il vino tutto d’un fiato, senza assaporarlo, onde provarne con maggior rapidità gli effetti infernalmente benefici e raggiunger più presto, nell’ebbrezza, l’oblio di sé stessi. Gli scienziati, irrimediabilmente incapaci di addentrarsi nell’anima degli artisti, coniarono una grossa parola: dipsomania. La dipsomania, essi affermarono pomposamente, è ereditaria. Quindi, istintiva. Alcune considerazioni per dimostrare che l’arte esce ed entra continuamente dall’osteria con canti di gioia e canti d’amore. Tanto che nel 1987 a Macerata, nel corso dei lavori di ristrutturazione delle cantine di Palazzo Narducci – Boccaccio, apparve misteriosamente un affresco attribuito dagli esperti a Giovanni di Pietro detto “Lo Spagna” (1450 – 1528). Nell’opera profana figurano in un baccanale Sileno, Noè e Fauno. Purtroppo di questo tesoro nascosto s’è parlato poco e ancor meno s’è pensato di studiarlo. Insomma molti artisti vissero pericolosamente ma con tanta passione sotto le insegne di Bacco, come lo scultore settempedano dimenticato Ercole Rosa. Al contrario, non credo che il nostro Luigi Bartolini fosse un gran bevitore anche se ci ha lasciato un poetico “fiasco” dipinto nel 1944; penso che fosse più attratto da Venere, soprattutto nelle sembianze di lavandaie dai fianchi possenti ritratte al lavoro presso le varie fontane maceratesi o lungo le rive del Potenza. Il Bartolini le riprendeva di spalle, al contrario del Pascoli che ne descriveva la poesia: “lo sciabordare delle lavandaie/ con tonfi spessi e lunghe cantilene”. La storia del vino, oltre ad essere stracolma di editti contro i grandi bevitori, ci narra di alcuni miracoli legati al nettare degli dei. Dal vinum non habent delle Nozze di Cana, dove Gesù trasformò l’acqua in vino a quello narrato da fra’ Bonaventura nei Fioretti. Nel 1215 a Pievebovigliana, nella costruzione della prima chiesa francescana, mentre i muratori erano intenti a costruire il convento, ecco che l’acqua per un’ora venne trasformata in vino da san Francesco, con grande sollievo degli operai assetati.
Ora il pozzo miracoloso è stato restaurato per perpetrare così la leggenda del santo bevitore. Nelle immediate vicinanze del convento fluviale c’è un ponte romanico, anticamente chiamato Pons Trabis o Trabe Bonanti, attraversato da san Francesco e nel 1510 da Giulio II, ospite nel castello di Beldiletto. Il pontefice ebbe modo di ammirare il chiostro del convento con tanto di palombara annessa alla chiesa, come pure la torre di Campi, in quel tempo usata come prigione e non come palombara come alcuni sostengono, la vicina villa con loggia fatta erigere da Elisabetta Malatesta e soprattutto il castello di Beldiletto, dove Giulio Cesare da Varano aveva lasciato segni indelebili della sua follia d’amore per la Perozzi, forse all’insegna del refrain battistiano amarsi un po’ è come bere. Beldiletto rimane un luogo affascinante perché intimamente legato a maledizioni e a vecchie e nuove leggende, come quella del pan d’oro, ma questa sarà un’altra storia. Certo che questo castello, posto sulla riva sinistra del fiume Chienti, rappresenta un punto di partenza per itinerari senza tempo alla ricerca di vestigia picene, di luoghi della Fede tra pievi (Pieve Torina, Pievebovigliana e Pieve Favera) e abbazie misteriose come quella di san Maroto, di sontuosi villaggi fortificati quali Roccamaia e Rocca Mattea. Pievebovigliana con i suoi corsi d’acqua, i parchi e le riserve naturali, rappresenta anche un bene omogeneo di eccezionale valore ambientale, alle porte del parco dei Sibillini, tra la riserva di Torricchio e quella di Fiordimonte. Quest’ultima, secondo una delle ultime leggende metropolitane, sarebbe stata una bandita di caccia addirittura di Federico II e forse, proprio ad Alfi di Fiordimonte, nella residenza in multiproprietà dell’Imperatore, si davano convegno alchemici e cerusici per crociate, alla ricerca del Graal perduto. Bei tempi quelli del castello di Beldiletto, tempi del maggioritario, del bipartitismo perfetto: da una parte il partito dei guelfi e dall’altra quello dei ghibellini. Certo che allora Papa e Imperatore non si davano la mano come Nietzsche e Marx. Ritornando al castello di Beldiletto, chiamato nell’Ottocento anche di Buon Ritiro, esso promana ancora un fascino particolare, tipico del luogo delle feste più prezioso e fantastico che esista. Quello era il tempo dei colori accesi, dei tessuti sontuosi e dei volti ben disegnati di cavalieri valorosi che si esprimevano con il linguaggio del trecentesco novelliere ghibellino Franco Sacchetti. Quest’ultimo voleva essere il poeta di una società che non ignorava il costume della cortesia, delle liete e fastose brigate, che poteva intendere ed apprezzare i poemi del Boccaccio. La sua ambizione era quella di comporre versi per il pubblico del Boccaccio, non per quello dei canterini, tanto che non aveva in particolare simpatia la signoria varanesca. Infatti, egli accusava giustamente Rodolfo da Varano d’aver tradito la Lega fiorentina delle “Cento Città”, passando per convenienza al partito guelfo. Ecco perché molto spesso, nel suo poema “Il Trecentonovelle”, il Sacchetti non perde occasione per dileggiare la nostra popolazione ondivaga, come nella novella CXIX ambientata proprio a Pievebovigliana: “Messer Gentile da Camerino, mandando l’oste a Matelica, certi fanti da Bovegliano, essendo ebbri, combattieno uno pagliaio; e nella fine, cogliendo ciriege, sono tutti presi.”
In considerazione del fatto che la novella è riferita alla fine del Trecento, si può verosimilmente ipotizzare che i nostri eroici fanti, partiti dal castello di Pievebovigliana per combattere contro la ghibellina Matelica e che presero un granchio sbagliando ostilità con osteria, partissero proprio da Beldiletto. Naturalmente, come in tutte le novelle, anche questa non manca della sua morale di chiusura: “…li Matelicani furono alla detta brigata e pigliarono, delli trentacinque bon fanti, trentasei. Alli quali, a cui furono tratti i denti, a cui mozzi gli orecchi; e pagarono quello che poteano per uscire di prigione. E così capitarono questi gagliardi che, essendo armati di mosto, combatterono con la paglia; e poi appiè d’un ciriegio furono vinti, senza fare alcuna difesa”. Vale a dire: chi ha orecchie per intendere intenda…
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati
tutti questi miracoli accaddero solo nel medioevo, quando al popolo si poteva far credere di tutto…
a me risulta che i miracoli avvengono ancora,informati M.B.D’Anesio.