Finale nel segno dell’utopia per Popsound, la rassegna primaverile di Popsophia che ha tracciato in tre incontri un percorso sul filo della musica e della filosofia.
Protagonista dell’ultimo appuntamento andato in scena ieri sera a Civitanova in un teatro Annibal Caro gremito il mito di Woodstock a 50 anni dalla rivoluzione del rock. Teatro in sold out sin dal secondo giorno dopo l’apertura delle prenotazioni. Pubblico arrivato da tutta Italia, dalla Sardegna al Veneto. Popsound è stato il primo appuntamento in Italia e nel mondo a ricordare i cinquant’anni di una stagione memorabile, di giorni indimenticabili: quell’estate 1969 che ha sconvolto e sovvertito le leggi dello spettacolo. «I tempi stanno cambiando, il perdente di ieri sarà il vincente di domani: non commentate se non comprendete il cambiamento che sta avvenendo». Bob Dylan nel 1964 scrive, canta e suona un inno generazionale e una profezia biblica, e anche se non calcherà mai il palco di Woodstock, le sue suggestioni rivoluzionarie hanno inaugurato la serata di chiusura di questo evento filosofico-musicale dove le note popolari e la canzone folk sono diventati un elemento della cultura alta che si trasforma agevolmente in oggetto a disposizione di tutti.
A tessere il racconto Alessandro Alfieri, filosofo e saggista, critico di cinema e di musica pop, con gli interventi della direttrice artistica Lucrezia Ercoli e le incursioni musicali della band Factory. «A cinquant’anni di distanza è necessario tornare a riflettere sull’evento rock più celebre della storia – dice il filosofo – Woodstock non ha voluto settorializzare la società secondo generi e prodotti di consumo perché altrimenti avrebbe seguito la stessa dinamica dell’industria culturale capitalistica ovvero proporre dei prodotti destinati a determinate fette di mercato. No, Woodstock obbliga tutti a partecipare a qualcosa che comprende il tutto in sé. Un’intera generazione ambisce alle più disparate linee di fuga per sottrarsi alla morsa micidiale del modello borghese occidentale, claustrofobico e soffocante». Al Teatro Annibal Caro di Civitanova Alta il mezzo secolo trascorso dal concerto più importante della storia del rock si presenta come un cristallo dalle molteplici facce: dal folk dei Crosby, Stills, Nash & Young, al soul di Piece of My Heart di Janis Joplin; dall’intramontabile We Shall Overcome di Joan Baez fino al rock hard degli Who; dalla drammatica riproposizione del pezzo dei Beatles With a Little Help from My Friends da parte di Joe Cocker, all’incanto esotico e tribale del Soul Sacrifice di Santana, per arrivare all’epilogo leggendario della chitarra di Jimi Hendrix, capace di dare espressione struggente e tragica ad una stagione culturale complessa, ricca di contraddizioni come ogni inno all’amore sa essere. «Il termine chiave della serata è stato “utopia”. L’utopia si materializza a Woodstock attraverso l’evento, la situazione, il concerto, la scorciatoia verso un non-luogo, sicuramente felice – spiega Lucrezia Ercoli – lo scopo di questo concerto e l’impatto sulle coscienze di quelle immagini e suoni sono così forti perché evocano un’utopia sulla terra, il paradiso perduto ma certamente sognato, la felicità raggiunta attraverso l’amore come forza che unisce tutte le comunità del mondo».
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