di Carlo Cambi
Le stime previsionali dicono che la recessione nelle Marche colpirà più duramente che nel resto d’Italia: esattamente il doppio. Un arretramento di oltre mezzo punto nella ricchezza prodotta è un segnale più che preoccupante. E non è affatto congiunturale: né nella dimensione, né nella composizione. E’ alquanto singolare che nessuno finora si interroghi sul perché accade e sul che fare. Ci si limita ad una constatazione dei fatti e al più a una gestione emergenziale. Così non si va lontano. Vi sono degli elementi di analisi che emergono con prepotenza accanto a fatti incontrovertibili che disegnano, come sa chi mastica di queste cose, un quadro abbastanza delineato di criticità e di rischi. Molto meno definiti sono i punti di forza e soprattutto le opportunità a venire. Tra questi punti di forza possiamo annoverare un sistema creditizio locale ben radicato, in sviluppo e con forti proiezioni verso l’impresa. Accorte politiche di bilancio e di gestione hanno posto la quasi totalità degli istituti di credito marchigiani (non quelli operanti nelle Marche) al riparo da esigenze gravose di patrimonializzazione. Ed è in larga parte all’azione di ammortizzazione della crisi che il credito ha operato in regione se non si sono avute conseguenze più pesanti per la nostra economia. Da questo punto di vista i Consorzi di garanzia delle associazioni di categoria – penso ad esempio a quello della Confartigianato e della Confcommercio – hanno svolto un ruolo difensivo ineludibile. Del pari tra i punti di forza va annoverata la capacità di alcuni distretti – segnatamente quello calzaturiero – di modificare le strategie di produzione e di commercializzazione e la caparbietà con cui gli imprenditori hanno fatto fronte alla congiuntura negativa immettendo liquidità nelle aziende. Rilanciando sulle attività di tasca propria. Se si osservano infatti i più acuti punti di crisi a livello regionale ci si rende conto che i licenziamenti, le chiusure di stabilimenti, la cassa integrazione hanno operato prevalentemente o in industrie a capitale straniero, o in quelle a partecipazione pubblica o nelle (ex) grandi imprese. Le medie e piccole imprese pure soffrendo duramente hanno resistito sulla trincea economica. Per non dire degli artigiani – anche se si è avuta una sorta di epidemia di imprese in questo settore – del commercio che registra vistosissimi cali di fatturati ma prima di abbassare la serranda profonde anche l’ultima energia e dell’agricoltura che pure vedendo erodersi i margini già esigui non abbandona il presidio territoriale ed anzi è l’unico settore in lievissima controtendenza almeno sul fronte occupazionale. Ma lo scenario che si preannuncia con il fortissimo impatto recessivo della manovra del Governo è assai preoccupante. Le soglie di resistenza del tessuto economico marchigiano, già seriamente compromesse, sembrano in procinto di essere sfondate.
L’analisi che vale a livello regionale vale a maggior ragione a livello provinciale maceratese dove si evidenziano ulteriori criticità in parte nascoste dal volano keinesiano rappresentato dai lavori per la quadrilatero, in parte compensate da una discreta performance in ambito turistico. Ma proprio questa performance è una sorta di atto d’accusa del vuoto di programmazione in cui ci si muove. E’ lecito affermare che la buona performance turistica è il frutto di un investimento (di risorse e di idee) che ormai buoni 12 anni fa Camera di Commercio, Provincia e Fondazione Carima fecero in un tavolo di concertazione su questo settore. Ma quella stagione di progettazione condivisa è durata pochissimo. E’ stata tuttavia sufficiente a produrre l’onda lunga che si registra oggi in termini di successo e basterebbe qui citare il caso di Pievebovigliana dove con un minimo di progettazione e programmazione di sviluppo armonico si sono ottenuti, grazie anche alle intuizioni del professor Antonio Calafati, ottimi risultati. Vuol dire tuttavia che la strada è questa: programmazione, progettazione dei sistemi territoriali tenendo conto delle vocazionalità, infrastrtturazione e creazione dell’ambiente per lo sviluppo. Le criticità del sistema economico maceratese sono di tutta evidenza: manifatturiero maturo, scarsa infrastrtturazione, nessuna spinta all’innovazione salvo quelle che vengono dalla CCIAA e dai singoli imprenditori, terziarizzazione a bassissimo valore aggiunto. Tra le opportunità ve ne sono di infinite: dal turismo all’economia dell’immateriale, dai servizi ad alto valore aggiunto ivi compresa la sanità alle nuove tecnologie, dalla green economy agganciata alle produzioni agricole alle nanotecnologie e alle bioingegnerie, dall’artigianato d’arte alla riqualificazione territoriale. Ma non v’è chi non veda che molte di queste opportunità dipendono da una capacità di programmazione che è in larga parte in capo alla politica. E qui risiedono le maggiori criticità del maceratese e di Macerata. E’ significativo che alla presentazione di CM-Economia (ENTRA NELLA NUOVA PAGINA) vi fossero le associazioni di categoria, il sistema del credito, l’università ai suoi massimi livelli di rappresentanza, alcuni dei più radicati imprenditori, i sindacati ma nessuno degli amministratori.
La recessione nelle Marche, ma più ancora nella nostra provincia e nella nostra città è prima di tutto una recessione politica. Sarebbe lunghissimo l’elenco delle opportunità non colte, sarebbe altrettanto esteso il compitare le molte cose non fatte, le molte promesse mancate, le molte opportunità negate. Li rimando, questi elenchi, ad un successivo intervento. Mi è sufficiente qui notare che la politica maceratese ha soltanto gestito l’emergenza, spesso anche in maniera confusa. Se guardiamo alla città si può fare un lunghissimo elenco di cose non fatte: dalle infrastrutture (la variante Pieve-Mattei, il Palas, il polo natatorio che tuttavia pesa con i mutui a suo tempo accesi sulle casse comuni, il caso città dello sport) all’economia dell’immateriale e della cultura (il caso Sferisterio è sufficiente ed emblematico, l’incertezza su caso fare di palazzo Buonaccorsi, la non messa a sistema dell’attrattiva Università), dal commercio ( la continua erosione di esercizi e la desertificazione del centro storico) ai servizi (la perdita mai compensata di alcuni poli decisionali come la Banca d’Italia, l’incertezza sul futuro dell’Ospedale). Ma ciò che più preoccupa è che si è gestito con i consueti attrezzi: edilizia e centri commerciali (che peraltro soffrono la crisi e minano il commercio tradizionale), pubblico impiego e servizi di basso valore. Dov’è un’idea di città in sviluppo? Se dalla città si passa alla Provincia lo scenario rimane di eguale incertezza. Dalla gestione dei rifiuti alla qualificazione del territorio non si vedono iniziative di programmazione, lo stesso PTC (piano territoriale di coordinamento) sembra ancora un abbozzo e tanto per dirne una non si è ancora capito come – una volta che la Quadrilatero sarà conclusa – intersecare il percorso veloce con i percorsi lenti in modo da fertilizzare con nuovi flussi i territori interni. Egualmente dicasi per agricoltura e gestione delle risorse naturali. Vi è una sorta di paralisi progettuale davvero preoccupante. E ciò a fronte di nuovi introiti che gli enti locali realizzeranno. Con l’Imu i Comuni avranno nuove risorse che saranno impiegate come? E per converso se andrà avanti il progetto di abolizione delle Province quali livelli di governance intende darsi questo territorio? Nei cassetti della Provincia come in quello del Comune giacciono piani strategici elaborati dall’Università, vi è un dossier su Macerata città della cultura che nessuno ha aperto, vi sono studi settoriali, dal turismo alla green economy, prodotti da ottimi tecnici che sono rimasti lettera morta. Viene da chiedersi se al di là dell’emergenza vi sia da parte della politica locale la percezione dell’acutezza della crisi nelle sue dimensioni, ma più ancora nella sua qualità. Questa crisi ha un carattere strutturale che chiede una ridefinizione del nostro modello di sviluppo. Ma di questo i principali attori – appunto i politici – paiono non occuparsi. Forse se ne preoccupano, ma non si capisce come visto che quando affrontano i temi economici si limitano all’elencazione del già (dolorosamente) noto e cioè disoccupazione giovanile, invecchiamento della popolazione, perdita di potere di acquisto ma non vanno oltre. Non indicano né linee strategiche né soluzioni strategiche di medio periodo. Forse non lo sanno, ma la politica è il primo fattore di sviluppo soprattutto in una fase in cui bisogna ridefinire i modelli. Sarebbe interessante che i politici rispondessero a queste semplici domande: quale ruolo e quale economia per Macerata futura? Quale vocazione per il territorio provinciale? Quale seconda gamba dello sviluppo accanto al manifatturiero? Cronache Maceratesi è il luogo dove queste risposte possono venire. Le attendiamo. Avvertendo che primo compito della politica è creare aggregazione, favorire la coesione di sistema, contemperare gli interessi, armonizzare i bisogni. Per questo sostengo che la recessione nelle Marche e più ancora nel maceratese è politica: perché manca la creazione del sistema, perché si è dato spazio solo ad interessi particolari e tra questi alla mera perpetuazione della politica. Che però così facendo nega se stessa. Per dirla con Don Milani di Lettera a una professoressa “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”. A dire il vero la politica maceratese sembra molto avara. Almeno d’idee.
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La produzione marchigiana (abbigliamento, borse, calzature) che per tanti anni è stata il volano che ci ha permesso di crescere e prosperare è, come d’altronde in quasi tutta Italia, una produzione cosiddetta a “bassa tecnologia”.
Cioè le officine di oggi (calzaturifici, manifatture, opifici, ecc.) hanno una linea di produzione sostanzialmente UGUALE a quella di 100 ani fa.
Certo le macchine sono migliori, ci sono i dispositivi di sicurezza, oggi ci sono gli aspiratori che proteggono la salute degli operai.
Ma in definitiva la produzione viene realizzata, con migliori tecnologie, come veniva realizzata 100 anni fa…. Da noi la “differenza ” l’hanno sempre fatta gli operai specializzati.
Ciò ha significato che, per decenni, noi italiani siamo stati la “Cina d’Europa” in quanto riuscivamo a produrre A PREZZI INFERIORI MA CON QUALITA’ SUPERIORE una serie di beni che venivano esportati in tutta Europa e in tutto il Mondo.
Ma al centro della nostra produzione c’è sempre stato l’uomo e non la macchina: gli abiti erano ben realizzati, le scarpe ben costruite, le borse ben cucite in quanto i nostri operai erano “bravi” e costavano poco…..
La concorrenza (dove anche lì c’era bassa tecnologia, in quanto la linea di produzione era simile a quella italiana) faceva prodotti di QUALITA’ INFERIORE e quindi il MADE IN ITALY era un gran valore aggiunto per la qualità, ls realizzazione, la durata dei nostri prodotti.
Non a caso per anni, nel settore delle calzature, tutte le più importanti “marche” internazionali di scarpe sportive avevano buona parte della loro produzione in Italia.
Ma la concorrenza (Cina, India, Vietnam, Taiwan, ecc.) che faceva cose brutte, che erano orribili a vedersi, cucite male, che si scollavano piano piano ci hanno raggiunto (come qualità costruttiva) e superato…..
Quindi oggi il Made in Italy non è più un valore aggiunto poichè il Made in China è di qualità uguale se non sueriore… ma costa la metà!!!
Ed allora, in un ottica di mercato, perchè comprare italiano se posso comprare cinese e guadagnarci il doppio, visto che la qualità è la stessa????
Non a caso in Italia “resistono” solo i marchi (sebbene in parte la produzione l’hanno spostata ei paesi emergenti)… Ma appunto perchè venfono “il nome”, non certo vendono la qualità italiana che oramai è uguale a quella indiana o koreana.
Senza scomodare chissà quali analisi economica la sostanza è tutta qui.
Ieri la manifattura italiana era di qualità e costava meno di un prodotto realizzatoin Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti (d era superiore alleporcate che giungevano dal’Est Asia)
Oggi i prodotti dei Paesi Emergenti hanno la nostra stessa qualità ma costano la metà.
Quindi ieri eravamo, noi italiani, i cinesi d’Europa… oggi sono arrivati i cinesi con i loro prodotti e noi siam andati fuori mercato.