di Mario Battistini
Lo sbarco in Normandia. Resta scolpita in una delle più celebrate pagine di storia la data del 6 giugno 1944 che segnò l’inizio della fine della Seconda Guerra mondiale con la conseguente liberazione dell’Europa dall’occupazione tedesca. Sono trascorsi 66 anni da quella memorabile impresa che vide protagonisti milioni di soldati di diversa nazionalità, ma un solo italiano. Uno soltanto ed era un maceratese: Ferruccio Giglio. Si era arruolato volontario nell’esercito britannico, che era la spina dorsale dell’imponente armata alleata che sferrò il decisivo attacco contro gli sbarramenti di difesa organizzati dalle divisioni naziste lungo le coste a nord-ovest della Francia.
L’operazione – nome in codice <Overlord> – ebbe inizio all’alba di martedì 6 giugno 1944, data ben più nota come <D-Day>, il <giorno più lungo> di tutta la battaglia, proseguita poi per settimane e mesi in Francia, nelle Ardenne e in altre aree del vecchio continente.
L’esercito alleato può contare su una forza d’urto impressionante: divisioni di fanteria e divisioni corazzate, truppe di paracadutisti, incrociatori, cacciatorpediniere, navi e vascelli, aerei da caccia e da combattimento, carri armati. Una forza di quasi tre milioni di uomini per lo sbarco e le successive battaglie, al comando del generale Dwight Eisenhower, che in seguito sarà eletto presidente degli Stati Uniti. Più della metà di questo straordinario spiegamento di uomini è rappresentato da americani, il resto inglesi, francesi, canadesi, norvegesi, belgi, polacchi, cecoslovacchi. E un solo italiano: il <nostro> Ferruccio Giglio.
Con Ferruccio Giglio chi scrive ha avuto una intensa frequentazione. Ci s’incontrava quasi ogni giorno in via Garibaldi, dove lui abitava con la famiglia, e ogni volta ascoltavo con interesse le sue analisi critiche sulle vicende politiche maceratesi e nazionali. Si definiva socialista liberale, diffidava dei demagoghi e dei populisti e aveva in forte antipatia tutti gli <antifascisti in pantofole o da caffè> che dopo la guerra <si diedero da fare per raccogliere premi e onorificenze>.
Ferruccio Giglio fu in diversi periodi segretario della sezione cittadina del Psi, con sede in vicolo Santafiora, a due passi dalla sua abitazione, ma non ricercò mai incarichi pubblici. E non li ebbe. Molti anni fa, prima di morire, volle raccontarmi la sua non comune vicenda di soldato, fino a quel momento sconosciuta ai più, ma della quale andava giustamente fiero: la sua partecipazione allo sbarco in Normandia. In due ore di appassionata ricostruzione dei fatti, mi sembrò di rivivere le emozionanti scene di guerra de <Il giorno più lungo>, il film-colossal del 1962, con John Wayne, Robert Mitchum, Henry Fonda e molte altre star hollywoodiane del tempo. <Questa storia – mi disse Ferruccio – ora è tutta tua, puoi farne l’uso che vorrai>. Ritenni opportuno, allora, darne notizia sul ‘’Carlino’’. Più tardi, solo più tardi, fu ripresa dal <Corriere della Sera>. E oggi, nel sessantaseiesimo anniversario dello Sbarco, ho creduto opportuno recuperare le decine di fogli sui quali avevo registrato il racconto, per sottoporlo all’attenzione dei lettori di <Cronache Maceratesi>. E’ un doveroso omaggio alla memoria di un maceratese perbene, che suscita ancora oggi, in coloro che lo hanno conosciuto, sentimenti di simpatia per le sue indiscusse qualità morali e per la storica impresa d’armi alla quale prese parte. Ma, adesso, lasciamo la parola all’unico italiano che prese parte allo Sbarco in terra di Francia.
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Il <D-Day> di Ferruccio Giglio.
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<Tra gli Anni Trenta e Quaranta risiedevo in Belgio con la mia famiglia. Mio padre, giornalista e antifascista, era stato costretto ad abbandonare l’Italia perché inviso al regime mussoliniano. Per i non allineati vivere nel nostro Paese non era facile. A Bruxelles, dove mi laureai in architettura, rimasi tre anni, dal 1937 al 1940. Anche lì, però, la situazione peggiorava di giorno in giorno. Dovemmo così fuggire anche da quel Paese schiacciato dall’invasione tedesca e ci trasferimmo a Londra. Fu un continuo peregrinare, per noi e per altre famiglie, in una Europa dilaniata dai combattimenti. Si avvertiva, certo, la nostalgia di casa, ma non c’era nulla da fare.
<Il 25 dicembre 1940 mi arruolai nell’esercito britannico e fui inquadrato nel contingente pionieri. Più tardi passai al Genio. Il periodo cruciale della guerra arrivò sul finire del 1943 e noi soldati ricevemmo l’ordine di stare in continua all’erta. Si sapeva che il Comando supremo alleato stava mettendo a punto le strategie necessarie per porre fine alla tragedia bellica e ben chiaro avevamo il compito da svolgere: la distruzione delle postazioni di difesa tedesche in Normandia, che avrebbe poi permesso all’esercito alleato di proseguire l’avanzata nella risolutiva campagna terrestre nel cuore dell’Europa.
I nostri reparti cominciarono i preparativi per lo sbarco sulle coste di Francia, senza peraltro conoscere la data dell’invasione. Per giorni e giorni fummo tenuti sotto pressione per organizzare l’operazione nei minimi dettagli. Ci imbarcavamo e tornavamo a terra, ripetendo sempre le stesse cose e simulando gli i interventi che poi avremmo dovuto realmente compiere.
<Arrivò il mese di giugno del 1944, il momento decisivo. Giunse dal Comando supremo alleato l’ordine di muoverci. Tutto iniziò dopo la mezzanotte del 5 giugno con il lancio di paracadutisti a Pegasus Bridge, a Sainte-Mère-Eglise e in altre zone. In direzione dell’area assegnata al mio reparto, tre divisioni di circa trentamila uomini furono le prime a partire. Io ero con loro. Rimanemmo per tre giorni su un mare tempestoso che provocò anche numerose perdite fra i soldati, precipitati dai mezzi anfibi. Risultò molto complicato avanzare. In quelle ore provai sensazioni che non è facile descrivere. Da qualunque parte guardassi vedevo più navi che acqua. Una cosa impressionante.
<All’alba del 6 giugno, il <giorno più lungo> di quella imponente operazione militare, puntammo su Courselles sur Mer, 25 chilometri a sud di Caen. Io ero con la divisione britannico-canadese, proprio al centro dello schieramento. Il fronte di sbarco si allungava per un centinaio di chilometri, con una profondità di 15. Mettemmo piede sulla spiaggia verso le 6 del pomeriggio, ma altri reparti sbarcarono prima di noi, alle 6 del mattino del 6 giugno. Fummo accolti da un violento bombardamento dell’aviazione tedesca. Le nostre perdite furono gravissime. Il Genio ebbe la peggio (quasi il 70 per cento dei morti) ma non furono tanto gli aerei a decimare le nostre file quanto le mine disseminate sulla spiaggia. Si avanzava con molta circospezione, ma i rilevatori di cui eravamo dotati non ci furono di grande aiuto perché i tedeschi avevano collocato sotto la sabbia mine di legno e non di metallo.
<Il nostro compito era di aprire varchi alle truppe che ci seguivano. Per due giorni non vedemmo anima viva a Courselles sur Mer: la gente del paese era scappata nei rifugi. Solo al terzo giorno uscirono tutti allo scoperto e si riuscì a stabilire un contatto con la popolazione del luogo. Attendemmo i rifornimenti per altri dieci giorni, quindi cominciammo ad avanzare nell’interno. Fummo tra i primi ad attraversare la Senna, dopo la sconfitta tedesca in Normandia. Il bilancio era stato pesante per la Germania nazista: perdite enormi tra morti, feriti e prigionieri.
<Le settimane correvano, ma la campagna terrestre sembrava non cessare mai. A tappe forzate arrivammo in Belgio, a Bruges. Anche lì ci furono scontri cruenti. Poi avanzammo ancora, raggiungemmo Maastricht, in Olanda, e successivamente Eindhoven.
<Per un lungo periodo, durante la disperata controffensiva tedesca, rimanemmo isolati. Si riuscì, comunque, a venir fuori da questa situazione e continuammo ad avanzare. I mesi, intanto, trascorrevano tra una infinità di problemi da dover fronteggiare. Arrivammo in Germania, sul Reno. Era trascorso quasi un anno dallo Sbarco in Normandia quando misi piede nella città di Uelzen, nella bassa Sassonia. Le sorti della guerra stavano sempre più volgendo a favore dell’esercito alleato. In seguito, con altri commilitoni, fui inviato in India in previsione di un possibile dirottamento in Giappone, che però non mi coinvolse. E proprio in India fui congedato il 9 giugno 1946. Tornai in Inghilterra e poi in Italia, e finalmente a Macerata.
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Un bellissimo ricordo del compagno di partito Ferruccio.
Un abbraccio ovunque tu sia.
Mi piacerebbe che molti leggessero queste memorie.