L’epopea dell’italiano medio
che inventò la nostra telivisione

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bongiorno mike

(Fonte: www.repubblica.it

di Edmondo Berselli)

Tutto conoscevamo di lui, tranne la “versione di Mike”, come suona il titolo della sua autobiografia. Perché la vita di Mike Bongiorno, scomparso ieri a Montecarlo a 85 anni, è stata davvero un’epopea. E non soltanto sul piccolo schermo, in bianco e nero e a colori. Per dire: staffetta partigiana con gli alleati per amore di libertà e competenza linguistica anglosassone, nonché insieme emblema del moderatismo e della maggioranza silenziosa, gaffeur sublime e inventore dell’immaginario televisivo, infilzato per sempre, come in una collezione entomologica ottocentesca, alla “fenomenologia” che gli dedicò Umberto Eco, indicato semiologicamente come un’apoteosi della mediocrità, Mike, conosciuto dal popolo anche come “Mai” oppure “Maibongiorno”, ha avuto un’esistenza che ha accompagnato la seconda metà del Novecento contrappuntandone i momenti fondativi della cultura di massa.

Non sembri un’iperbole retorica: pochi sanno delle disavventure che durante la guerra stavano per condurlo, da una cella a San Vittore attigua a quella di Indro Montanelli, davanti a un plotone di esecuzione della Gestapo (lo salvarono soltanto i documenti americani, che tuttavia non furono sufficienti per evitargli la deportazione per sette mesi a Mauthausen). E sono ancora meno numerosi coloro che conoscono l’avventurosa vicenda politica di suo padre, che fu candidato sindaco a New York contro Fiorello La Guardia e Generoso Pope, al tempo in cui, nell’età del “Padrino”, il voto degli italiani emigrati sotto la Statua della Libertà era davvero una risorsa politicamente strategica. Per la storia, il Bongiorno Senior si ritirò dalla contesa quando apparve evidente che La Guardia era imbattibile.

Mentre non occorrerebbe neppure accennare che Mike Bongiorno è stato la figura che ha posato la prima pietra del sistema televisivo nel nostro paese, che ne ha per molti aspetti codificato i valori e gli stili imponendo a un’intera società una modalità dello stare e dell’osservarsi in pubblico. In quegli anni Cinquanta che preludevano al miracolo economico, Lascia o raddoppia? accese di luce azzurrina le serate degli italiani. Era un programma americano, anche se la Rai comprò il format francese, ricalcato dall’edizione d’oltreoceano ma che costava meno.

Sciocchezze, formalismi contrattuali per un’Italia che cercava un po’ a tentoni la propria via alla modernizzazione. Mike, il “presentatore”, con i suoi occhiali da secchione e la sua pettinatura da alieno televisivo, portò nelle case di tutti personaggi seminali, come il dandy Gianluigi Marianini, oppure l’eroe del controfagotto Lando Degoli, l’esperto di musica che aveva tradotto nel dialetto carpigiano la Divina Commedia, per non parlare della valletta e ur-velina Edy Campagnoli, che avrebbe sposato il portiere Lorenzo Buffon perché va da sé che nihil sub sole novi.

Bastarono quelle serate per trasformare Mike e i suoi programmi in uno schema pubblico perfetto. Non erano soltanto i telequiz, ma anche le undici edizioni del Festival di Sanremo, quando effettivamente Sanremo era Sanremo e mobilitava un’audience totale, oppure il concorso di Miss Italia, la riedizione di una specie di Festival della canzone napoletana, e perfino Qua la zampa, dedicata a cani, gatti e animali domestici vari.

Gaffeur, si è detto, anche se è uno dei segreti meglio custoditi della civiltà contemporanea se i suoi errori e i fraintendimenti fossero involontari o esplicitamente voluti, con un professionismo eccelso e senza scrupoli, quindi ricercati fra le righe del copione con la determinazione dell’animale televisivo senza tabù. Nessuno è in grado di giurare che un suo celebre lapsus su Papa Montini, ridotto inopinatamente a un comico “Paolovi”, fosse l’esito di un’incomprensione o la cinica quanto apparentemente stupefatta sottolineatura di un errore di lettura del testo. E circolano numerose leggende sulla veridicità di una delle sue gag più fragorose, che comunque è diventata quasi un luogo comune fra gli aneddoti nazionali: cioè l’inevitabile, immarcescibile, irripetibile e sempre ripetuto “Ahi ahi ahi signora Longari, lei mi è caduta sull’uccello!” (fra l’altro, era una domanda ornitologica o un quiz in cabina relativo all’artista Paolo Uccello?). Nel caso, come pare, manchino testimonianze tv risolutive, o si abbia il sospetto di tagli galeotti, occorrerebbe controllare di riflesso l’espressione successiva sul volto dell’altra grande valletta dei suoi telequiz, ossia un altro emblema del monopolio politico e televisivo, la venerata Sabina Ciuffini.

È una testimonianza, comunque, che mostra come una verità televisiva seppure inventata, diventa sempre più vera del vero. Il trionfo del verosimile sul reale. E la prova provata che la popolarità di Rischiatutto aveva una sua forza quasi dantesca, ossia la possibilità di modellare lessico e memoria dei contemporanei e dei posteri.

Ciò che è invece appare sicura è la dimensione politica di Mike, la sua interpretazione costante della “moral majority”. Che si trattasse di aprire una serata con il suo classico “Allegria!”, non importa se in coincidenza con una tragedia nazionale, oppure il voluto provincialismo al Festival di Sanremo del 1966, quando non mancò di strabuzzare gli occhi e di interpretare una parte comicamente reazionaria di fronte ai “complessi” italiani e inglesi che portavano il beat sui teleschermi domestici, il “signor Mike” interpretava come una copia carbone l’italiano medio quarantenne e democristiano. Forse l’alter ego settentrionale e apparentemente un po’ ottuso di Alberto Sordi. Per dire, era l’epoca in cui un funzionario della Rai, all’Auditorium di Napoli, poteva urlare “Portatemi via quei quattro finocchi”, evidentemente turbato dai falsetti dell’Equipe 84. Mentre a sua volta Mike Bongiorno si limitò a tradurre gli Yardbirds in “Gallinacci”, riducendo così una rivoluzione estetica mondiale in una faccenda da cortile: ma facendo sentire a tutta quell’Italia che si preparava a evitare il Sessantotto la propria complicità morale, estetica, musicale e allegramente misoneista.
Sarebbe un esercizio fin troppo facile tracciare l’albero genealogico che ha in Mike Bongiorno il capostipite e che “per li rami” annovera Pippo Baudo, Corrado, Enzo Tortora, Nuccio Costa, Daniele Piombi, fino a Carlo Conti e Gerry Scotti. Meno ovvio è esaminare il format della sua vita professionale, che ha visto tre livelli di presenza televisiva. Prima, ovviamente, c’è l’era quasi biblica della Rai, e con i quiz storici come Campanile sera, La Fiera dei sogni, Scommettiamo, Flash. Poi, agli inizi degli anni Ottanta, il passaggio di fase con le televisioni della Fininvest di Silvio Berlusconi (“Lei quanto guadagna con la Rai, Mike? Ventisei milioni? Qui c’è un assegno da seicento”). Della lunga esperienza con le tv berlusconiane rimangono l’apertura americana alle sponsorizzazioni e i 14 anni, dal 1989 al 2003, della Ruota della Fortuna, con oltre tremila puntate, sino a una rottura mai del tutto chiarita. E infine il terzo livello, che non si è realizzato ma che era stato preparato nei dettagli, vale a dire la scommessa con Sky e Rosario Fiorello, il revival satellitare di Rischiatutto.

Al di là della sua vita frenetica, dei tre matrimoni, della formidabile e divertente confusione con cui ogni volta trattava le elezioni italiane e americane, del suo ruolo di testimonial pubblicitario, di scalatore, di subacqueo (“Un sub eccezionale?”, gli chiede un giornalista secondo le leggende; “Ma no”, si schermisce lui, “un sub normale”): oltre ai suoi ruoli di attore con Totò, di collezionista di Telegatti, di moralizzatore scandalizzato verso concorrenti che portavano i bigliettini in cabina, Mike Bongiorno resta negli annali della cronaca nazionale, e quindi di una storia minore, a cui manca poco per diventare storia maggiore, come il costruttore di generi televisivi che si stagliano ormai come altrettanti format del nostro catalogo mentale.

In certi momenti della sua carriera, e soprattutto qui in ultimo, ha saputo perfino prendersi gioco di se stesso. Singolare forse, per un uomo che dai tempi dei tempi sembrava impermeabile a qualsiasi forma di ironia. Ma non del tutto imprevedibile per un protagonista che in fondo doveva sapere, per averla creata, che la televisione, è tutto, è nulla, è fatalmente un grande anche se talvolta involontario romanzo popolare.



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