Una della scena della Turandot di ieri allo Sferisterio
di Marco Ribechi
Una Turandot a metà tra cinema e fiaba conquista lo Sferisterio trasformato in risaia. Successo e applausi a scena aperta per il melodramma di Giacomo Puccini che ha aperto ufficialmente la 60a stagione del Macerata Opera Festival. Lo spettacolo, allestito dal regista spagnolo Paco Azorín, è riuscito a ricoprire nel migliore dei modi il difficile ruolo di dover celebrare, in un sol colpo, due passaggi storici decisamente importanti: i cento anni dalla morte del maestro toscano e i sei decenni di attività lirica nell’arena simbolo della città.
Di fronte a queste aspettative, e con un teatro tutto esaurito già da parecchi giorni, la Turandot ha trionfato nell’arduo compito di sposare la tradizione con i linguaggi moderni, consegnando una rappresentazione attenta, puntuale e molto immersiva per l’intera platea. Merito, in particolare, della suggestiva scenografia combinata in maniera superba con gli splendidi costumi, un sapiente uso delle luci e movimenti scenici estremamente plastici e teatrali. Una miscela di elementi davvero ottimi quindi che non poteva non concretizzarsi in una resa sognante, coinvolgente, in grado di far emergere significati profondi legati all’intimo dell’animo umano piuttosto che a un dato contesto storico. La Turandot di Azorín infatti è senza tempo e incarna a meraviglia la sua dimensione fiabesca, recuperando il linguaggio e il messaggio allegorico proprio di questa tipologia di racconti che, nella storia dell’umanità, sono sempre stati utilizzati per parlare di categorie universali e ataviche. Così è anche questo spettacolo che, attraverso la messa in scena di elementi rituali e iniziatici, affronta il tema del dualismo e della contrapposizione di forze, resa sia visivamente che metaforicamente.
La scena di apertura, che sostanzialmente non varierà più fino al termine dell’esecuzione, mostra già una prima divisione data dai piani di azione: in alto il balcone del palazzo della principessa, realizzato come un colonnato di travi rosse intrecciate, rappresenta il potere solenne e distante; in basso invece la risaia dove risiedono contadini al limite della servitù, vessati in continuazione dalle guardie imperiali. Al centro un piccolo piedistallo diventa il punto di fuga prospettico dell’attenzione dello spettatore dove, di volta in volta, si svolgono gli episodi chiave della narrazione. Ad ornamento del grande muro dello Sferisterio infine interviene un video mapping che vuole allo stesso tempo omaggiare la Traviata degli Specchi di Svoboda e Brockhaus. Come in uno specchio digitale qui viene proiettata la scena ripresa dall’alto, dove i cappelli dei contadini si tramutano in un placido cielo stellato. La combinazione di questi elementi forniscono al tutto una notevole linearità, facendo apparire il palco quasi come uno schermo cinematografico dove i protagonisti scorrono durante il racconto.
L’esecuzione del principe di Persia, che si protrae in una notevole violenza e crudezza per il primo atto, è l’apertura del mondo lunare di Turandot dove, per entrare, serve un sacrificio. Martorizzato come San Sebastiano, spogliato, trafitto, decapitato e poi portato in macabra processione, il principe è solamente l’ultima delle vittime immolate al regno di ghiaccio perpetrato da Turandot. Depositaria della morte, la principessa entra in scena con una freccia in bocca, portata a mo’ di rosa per suggellare il suo ballo di dolore. A dar manforte alla sua aura minacciosa anche un manipolo di guerriere amazzoni con un solo seno (la leggenda vuole che se lo strappassero per impugnare meglio l’arma) che in continuazione tendono i loro minacciosi archi verso una folla inerme, guidata come un gregge. Persino il terribile boia Pu-Tin-Pao, incaricato di eseguire le pene capitali, è incarnato da una figura di donna, anch’essa simbolo di una femminilità violata e terribile che chiede sangue ai suoi figli.
In questo clima di terrore si staglia Calaf, deciso a ristabilire l’ordine cosmico attraverso il fuoco della sua passione per la principessa. Ma, nella versione della partitura originale e incompiuta di Puccini, scelta per l’esecuzione allo Sferisterio, la vera eroina salvifica è Liù, l’unica depositaria di vero potere perché l’unica alimentata dalla reale forza dell’amore. Calaf infatti non brilla di arguzia e intuito poiché, come una creatura eterea, è Liù a suggerirgli tutte le risposte ai tre quesiti di Turandot, mostrando metaforicamente come la suprema forza sia quella, di nuovo, dell’amore.
Se con il sacrificio del principe di Persia a stagliarsi sul muro del bracciale è una luna magnetica ed enorme, con l’ascesa di Calaf e il lento avvicinarsi dell’alba della vittoria a questa viene a sostituirsi un sole infuocato che sorge immenso, riportando la dimensione lunare e notturna sotto il controllo della luce. A farlo sorgere però è il secondo martirio, quello di Liù, che annulla ogni altro protagonista consegnando allo spettatore il suo elemento catartico, rappresentato in scena da una pioggia purificatrice che interviene a lavare via ogni oscurità. Non c’è più Calaf, non c’è più Turandot, non c’è più bene e male, c’è solo l’amore incondizionato che sovrasta tutti, donato al teatro e alla realtà dalla morte dell’innocente.
“Qui finisce l’opera perché il Maestro è morto” disse Toscanini il 25 aprile 1926 alla prima rappresentazione dello spettacolo, e qui finisce anche la rappresentazione maceratese in grado di valorizzare l’ipotesi che in fin dei conti Turandot non debba per forza apparire come un’incompiuta. Il finale pucciniano infatti, più che di troncatura sa di spostamento: all’improvviso, in un attimo, ci si accorge che la vera protagonista è l’umile ancella da cui deriva la salvezza del mondo e il ritrovamente degli equilibri cosmici. Questo potrebbe essere il più grande tributo di Puccini alla sfortunata Doria Manfredi, la sua cameriera spinta all’ingiusto suicidio. Per questo, se si vuol cercare il pelo nell’uovo di uno spettacolo magistralmente orchestrato, si può forse trovare nell’accenno, al momento dei saluti, dell’aria del finale di Alfano. Questo brevissimo cantato è risultato piuttosto avulso da uno spettacolo che invece era giunto a compimento totale: forse si poteva risparmiare.
Bisogna infine aggiungere lodi per l’aspetto musicale dove i tre protagonisti, Turandot – Olga Maslova, Calaf – Angelo Villari e Liù Ruth Iniesta, sono stati tutti autori di prove convincenti e applauditi sinceramente dal pubblico, in grado di unire ottime prestazioni vocali a una mimica dettagliata che si è sposata alla perfezione con l’accuratezza riservata al corpo di ballo. In ottimo spolvero anche la Form, minuziosamente diretta dal maestro Francesco Ivan Ciampa che insieme al coro lirico marchigiano del Maestro Martino Faggiani e ai Pueri Cantores del Maestro Gian Luca Paolucci rappresentano senza dubbio alcuni dei punti cardine di ogni opera presentata allo Sferisterio. Oggi la stagione prosegue con la Norma di Maria Mauti, introdotta in mattinata agli Antichi Forni con il consueto Aperitivo Culturale di Cinzia Maroni.
(foto Luna Simoncini)
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