di Fabrizio Cortella
Inizio con il botto per la “51^ Rassegna nazionale d’arte drammatica Angelo Perugini”: domenica pomeriggio è andato in scena “Ben Hur”, scritto nel 2008 dal poliedrico Gianni Clementi, tra i maggiori autori del panorama teatrale contemporaneo per quantità e qualità. Dopo centinaia di repliche in giro per l’Italia ed un apprezzato adattamento cinematografico del 2013 (“Benur – un gladiatore in affitto”), è la volta della romana “La bottega dei RebArdò”, in tour ormai da tre anni esatti e con quasi cinquanta piazze raggiunte, di portare a Macerata questa fortunatissima commedia. Il sipario s’è aperto sui sospiri e sui mugolii appassionati di Maria (Monica Biagini) che, in ciabatte, tuta e vestaglia, alterna lo stiraggio dei panni di casa al lavoro… in una chat erotica. Da qui si dipana la trama che, inizialmente, vede coinvolti Maria, donna di mezza età, separata e alla disperata ricerca di un modo di sbarcare il lunario, e suo fratello Sergio (Enzo Ardone a cui si deve anche la regia), stuntman in disarmo, in perenne attesa del fantomatico risarcimento dagli Studios per il grave infortunio occorsogli sul set de “Salvate il soldato Ryan” e che, a sua volta, si arrangia malamente facendosi fotografare dai turisti al Colosseo, travestito da (pingue) centurione romano. Lo strano menàge fraterno procede in un alternarsi continuo di macchiette, costellato di battute pungenti, esplose nel Romanesco rigorosamente strascicato e variopinto delle borgate. Maria e Sergio sono persone segnate dalla vita, entrambi con matrimoni falliti alle spalle, entrambi con pochissimi mezzi, economici e culturali, per affrontare le difficoltà e i cambiamenti che la vita moderna impone loro. Sono arrabbiati con il mondo e rancorosi l’uno con l’altro, inetti nel “fare squadra” contro le avversità, capaci di rinfacciarsi finanche le cose più piccole: “Me cucini sempre e sortanto i sofficini” le ringhia lui e “Co’ ‘sti continui sospiri, nun me fai dormi’ tutta ‘a notte”. Lei reagisce con veemenza: “Nun penzerai de campamme su ‘e spalle perché me riporti ‘sti du’ spicci dar Colosseo?!” gli abbaia contro, mentre s’adopera senza speranze sull’ennesimo gratta&vinci.
La farsa potrebbe continuare sulla falsariga del grottesco quando, improvviso ed inatteso, avviene il deciso cambio di rotta. Maria rimedia un lavoretto da imbianchino per Sergio che, tuttavia, non può abbandonare il posto da centurione, pena la sua perdita definitiva. Questi, allora, telefona al suo compare, Er Zanzara, che gli procura un clandestino “fresco di giornata” a cui subappaltare la comparsata al Colosseo: Milan dalla Bielorussia. I due fratelli, di fronte al giovane “ingeniero” dell’Est, interpretato dall’applauditissimo Sandro Calabrese, esibiscono il peggiore repertorio dell’Italiano medio ignorante e, quindi, xenofobo: paura di chi non si conosce; disprezzo razzista per il diverso (“ecco ‘o zingaro”); totale incapacità, voluta e perseguita, di non comprendere l’altro (“Ma ‘n Bielorussia nun ce sta nessuno co’ ‘a quinta elementare?”); brutale prevaricazione (“Ricòrdate che tu nun sei nessuno: tu sei ‘n ombra!”). Avidi e spietati come iene affamate, non esitano a sequestrargli il passaporto e ad imporgli condizioni di lavoro schiavistiche (“te fai er centurione e poi famo fifty fifty co’ i sordi: er settanta a me e er trenta a te”). Tuttavia, Milan è il perfetto contraltare dei due fratelli: entusiasta, pieno di voglia di lavorare e libero da ogni pregiudizio grazie al suo “pensare positivo”. Con la sua solarità, risolleva rapidamente le sorti economiche del terzetto e i soldi cominciano ad entrare in casa: le tre sedie spaiate lasciano il posto ad altrettante sedie Ikea, dozzinali ma finalmente uguali. Sergio, ad ogni cambio di scena, esibisce orgogliosamente i nuovi status symbol del perfetto coatto: stivaletti pitonati, montone, catenone d’oro e, infine, il Bmw 320 nero con i sedili in pelle bianca (ovviamente usato). Dimostra persino una rudimentale forma di affetto e di amicizia verso Milan.
Anche Maria compie la sua metamorfosi: invaghitasi dei modi onesti e gentili del giovane, smette il look da sconsolata casalinga di mezza età e riscopre la civetteria della sua giovinezza. L’intreccio sembrerebbe volgere al più classico degli happy ending hollywoodiani allorché Milan suggerisce di ricostruire la celeberrima biga bianca che Charlton Heston guidava nel “Ben Hur” cinematografico e di proporla ai turisti insieme al suo centurione: l’idea funziona alla grande, i soldi arrivano a palate e i “concorrenti” del Colosseo rosicano selvaggiamente. Ma Clementi è stato allevato a “pane, Neorealismo e Commedia all’italiana”: è inevitabile che il lieto fine non ci sia e che la sorte si metta beffardamente di traverso frustrando ogni sforzo umano di contrastare il proprio destino. In preda all’euforia del successo, Milan racconta a Sergio che, con i soldi guadagnati, potrà finalmente far giungere a Roma la sua amata Galina e i loro quattro bambini; Maria è casualmente in ascolto, si rende conto di avere costruito dei castelli in aria e, come solo una donna “tradita” è capace di fare, decide di vendicarsi: denuncerà il clandestino alla polizia. Così, in fuga dalla Volante sulla sua biga, Milan procura un incidente in cui rimane gravemente ferito. Tornato faticosamente a casa dei due fratelli, Sergio vorrebbe trasportarlo d’urgenza all’ospedale, ma Maria gli ricorda che, essendo un clandestino, li metterebbe nei guai e propone di gettarlo in un fosso di campagna. Di fronte a tanta spietata ipocrisia, Sergio tentenna, ma è questione di pochi attimi. Risucchiato nell’abisso della più becera mediocrità, torna a sfoderare il cinismo da rubagalline di periferia. Afferra il cellulare: “A Zanza’, er pacco che m’hai regalato s’è rotto: vièttelo a ripija’…”. Il sipario si chiude su uno spettacolo in cui ci si è divertiti (molto) e si è riflettuto (amaramente), accompagnato da applausi convinti, da numerose risate e da qualche senso di colpa. Merito anche del ritmo costantemente elevato e dei perfetti tempi comici dei tre attori. I quali, dal canto loro, hanno dimostrato un profondo affiatamento e l’intima conoscenza del proprio personaggio in cui si sono calati come in una seconda pelle. Dunque, la pièce perfetta? Innegabilmente sì: il suo consolidato successo poggia sulle brillantissime prove attoriali tanto quanto su una scrittura strutturata nei contenuti, ma semplice e diretta nel linguaggio… anche se un commento musicale più articolato e variegato avrebbe arricchito una messinscena decisamente asciutta; anche se i numerosi “buio” tra i vari cambi di scena, sebbene obbligati dal lungo arco temporale della storia, hanno talvolta rallentato e smorzato la potente tensione emotiva creatasi in sala. In conclusione, un ottimo esordio per la kermesse maceratese, tra le più antiche ed apprezzate del panorama nazionale, ed una seria ipoteca sulla vittoria finale per “La bottega dei RebArdò” di Roma.
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