di Giacomo Alessandrini
Guardando quasi per sfida alcuni degli ultimi film di Uwe Boll, il giovane regista tedesco considerato uno dei peggiori cineasti al mondo, ci siamo imbattuti in due pellicole, al contrario, di ottima fattura: Rampage (2009) e Assalto a Wall Street (2012). Questi due film ci hanno spinto a riflettere sulla natura e le sue evoluzioni, di un certo modo di intendere il cinema. Stiamo parlando più in generale del cinema cosiddetto “dell’orrore” e i suoi fini di critica sociale.
Ebbene sì, per chi non lo sapesse il cinema horror, quello d’autore, muove i suoi primi passi ed esibisce il proprio disgusto per l’uomo e i suoi malesseri in numerosi lavori cinematografici di qualità. Critica aspramente la società e i suoi doveri da “maestra”, con argute metafore, simbolismi e giochi linguistici, evidenziando personaggi stereotipati e caricaturali, gioca con lo spettatore e il suo macabro gusto per la violenza. L’Horror autentico genera quella “catarsi riflessiva” utile allo spettatore per immedesimarsi e aprire gli occhi su quelle tematiche affrontate dallo sguardo attento del regista. Lontano da quel cinema delle origini che consideriamo tutt’ora sperimentale, che trova il suo capostipite nel Nosferatu di Murnau del ’22, troviamo oggi un genere “rivisitato”, quasi di contrasto, e assolutamente affascinante. Nel 1968 Roman Polanski porta in scena uno dei suoi capolavori più visionari: Rosemary’s Baby.
Con un budget da 3.2 milioni di dollari, il regista polacco filma un apparentemente innocuo dramma familiare (recitato splendidamente dalla bellissima Mia Farrow) dai risvolti agghiaccianti e a dir poco surreali, che non staremo qui a raccontare. Il film, tratto dal romanzo di Ira Levin, porterà addirittura un Oscar come Miglior attrice non protagonista a Ruth Gordon, facendo salire l’interesse per quel regista mingherlino che da qualche tempo usa la cinepresa per raccontare storie di nevrosi e desiderio, di terrore e solitudine, con un’accuratezza e pulizia per le immagini unica (ci sovvengono Repulsion e Cul-de-sac, rispettivamente del 1965 e del 1966). Nasce ufficialmente l’horror d’autore, quello fatto con i miliardi, abbracciato da registi del calibro di Zulawski, Kubrick, Spielberg e Friedkin.
In Italia questo genere, più fedele all’idea classica che prevedeva il puro terrore per lo spettatore come obiettivo primario, si era già ampiamente sviluppato da qualche anno grazie alla genialità di Mario Bava (La maschera del demonio del 1960 e Reazione a catena del 1971). Saranno definitivamente Lucio Fulci e Dario Argento a fare scuola negli anni ’80, in Italia e nel mondo, grazie a quella ricerca costante che differenzia il vero artista dal comune praticante.
Sempre nel 1968, George A. Romero, ispirandosi ai romanzi di fantascienza di Richard Matheson, consegna alla storia la sua prima (e immortale) opera cinematografica: La notte dei morti viventi.
Prende piede, da quell’esperimento semi-amatoriale, con 100.000 dollari di budget (ricavati da una feroce ricerca fondi), l’idea di un cinema horror sovversivo (parole della critica specializzata) , che prende le distanze dal passato rispetto al genere d’autore, con quella dose di critica sociale a contraddistinguerlo. Il protagonista di colore, sopravvissuto al massacro operato dai morti viventi, viene ucciso dalla polizia alla fine del film, costringendo lo spettatore a riflettere su quelli che sono, allora come oggi, gli Stati Uniti dei ghetti e delle differenze razziali, delle guerre improvvisate oltreoceano (gli anni del Vietnam), contro quel sogno americano che genera mostri (gli zombie del film, appunto). La morte del resto dei personaggi dona quella vena nichilistica al film, che non lascia scampo (la fine è arrivata per tutti), inedita per quel genere ritenuto finora di serie B. Il critico americano Mark Deming sul film: «la tragica fine di Jones, l’unica figura eroica e l’unico afroamericano del film, rievoca nella mente degli spettatori i non troppo lontani omicidi di Martin Luther King e Malcolm X».
Il regista John Carpenter contribuirà a rinnovare e rendere più esplicita quella connotazione sovversiva, portando sul grande schermo personaggi di estrazione proletaria alle prese con i meccanismi del capitalismo, calandoli in quel contesto tipico del genere. Come non menzionare Essi vivono del 1988 e Distretto 13 del 1976? L’horror diventa una pretesto per narrare altro, un disagio esistenziale che la popolazione sta affrontando, sulla scia di quella catastrofe imminente che porterà alla crisi dei colossi bancari. Con questo riferimento mi ricollego ad Assalto a Wall Street di Boll, in cui un uomo qualunque (Dominic Purcell, Prison Break), frustrato dai debiti accumulati, non riesce a pagare le cure mediche per la giovane moglie malata di cancro. Il suo broker, come se non bastasse, decide di investire i soldi in maniera poco pulita, finendo col perdere tutto.
Una scusa come un’altra per attuare una spietata vendetta contro il mondo della finanza che ne ha prosciugato i risparmi in breve tempo, costringendo la compagna a suicidarsi per non esser “di peso”.
Rampage, l’altro film, ci mette nei panni di un potenziale squilibrato che, ossessionato dai notiziari di cronaca nera, prepara una strage per “purificare” la terra dalla feccia, giustificando il gesto come necessario. Un buon film e un ottimo horror fuori dagli schemi. In questo caso l’orrore non risiede nella violenza, ma è da ricercarsi nel buio interiore del protagonista, in quel sadico desiderio di sangue; siamo animali, non abbiamo bisogno di giustificare le nostre azioni.
Il cineasta canadese David Cronenberg in questo risulterà più “cerebrale”, creando ogni volta dei film totalmente differenti dai precedenti, ma tutti con due grandi temi di fondo: il vuoto dell’esistenza e l’essere umano come puro istinto. Dalle sperimentazioni scientifiche di Il demone sotto la pelle del ’75 a quelle sulla psiche di Scanners dell’81; dalle follie mediche di Rabid del ’77 a quelle tecnologiche in Videodrome dell’83. Perché questi film vengono così apprezzati da pubblico e critica? Perché sono originali nel tempo, divertono e fanno riflettere.
Una ricetta semplice; ma sono sempre le più semplici a mettere in difficoltà.
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