L’atmosfera freudiana legata al Castello della Rancia traspare in un racconto pubblicato dal piemontese Alberto Fenoglio in “Archeologia magica”. Un racconto pieno di tenerezza e spiritualità a conferma dei sostenitori delle innumerevoli leggende legate a questo straordinario maniero. L’autore del libro, archeologo, nonché castellologo, descrive come arrivare al tesoro seguendo le indicazioni di una mappa disegnata agli inizi del 1500: “… si accede ai sotterranei da un pozzo che si apre nelle cantine, dal lato del torrione e si scende con una scala a chiocciola. Da molto tempo il pozzo è stato murato, pare verso la metà del 1700 poiché circolava la voce che nei sotterranei si davano convegno i fantasmi”. Naturalmente nella pappa vengono riportate tutte le indicazioni per arrivare al tesoro. Basta percorrere labirinti ancestrali, superare trabocchetti, aprire porte blindate ed eccoci al tesoro: cofani di monete, zecchini, ducati, sovrane, pezzi d’argento e gioielli. Quindi si potrebbe iniziare una sorta di caccia al tesoro, per monitorare, come si dice ora, i sotterranei che già diedero alla luce i basamenti delle colonne di un antico porticato. Non vedremo più personaggi in costume in una rievocazione impossibile intenti a distribuire il rancio napoleonico tipico del Castello della (A)rancia bensì tante persone armate di metal detector alla ricerca del tesoro perduto e forse anche Sofia, una bella e romantica ragazza con passione per la “Vergine di Norimberga” che una volta mi chiese: “Dov’è la stanza delle torture?”
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C’era una volta un vecchio
contadino
che aveva un suo campetto e la sua
marra
e tre figlioli. Giunto al lumicino,
volle i suoi tre figlioli accanto al
letto.
« Ragazzi – disse – vado al mio
destino
ma vi lascio un tesoro: è nel
campetto ».
E non potè dir altro, o non volle.
A mente i figli tennero il suo detto.
Quando fu morto, quelli il piano., il
colle
vangano, vangano, vangano; invano
voltano al sole e tritano le zolle:
niente! Ma, pel raccolto, quando il
grano
vinse i granai, lo videro il tesoro
che aveva detto il vecchio; era in lor
mano,
era la vanga dalla punta d’oro.
IL TESORO – G. PASCOLI
@ Sisetto
L’effimero è spesso legato ai castelli e alle relative fortune dei mercanti di giochi, per quanto riguarda le vendite di castelli come modelli inconsci e metaforiche difese dei nostri sogni. Al contrario la fortezza è il tempio della militare che, vuota d’arredi, non espone altro che il proprio essere racchiudendo l’idea del tempo e dello spazio. Si può definire la fortezza come macchina del tempo, della lentezza ossidionale e come idea dello sguardo o meglio del traguardare attraverso rapporti angolari. La fortezza è una potenza metafisica sviluppatasi nel corso del tempo fino al poco romantico scudo spaziale delle guerre stellari.
La premessa è determinante per cercare di capire l’origine e lo sviluppo del Castello della Rancia, la cui storia c’è stata tramandata imbevuta di leggende fantastiche com’è nel costume popolare.
interessante osservare la cartolina dell’epoca a corredo dell’articolo che dimostra la supponente mentalità campanilistica di macerata che si prende addirittura il diritto di non specificare che il castello si trova a tolentino. Un esempio di grettezza che ha fatto storia si potrebbe dire!
@ Bellini
La cartolina fu stampata, così come Lei la vede, dalla ” Tipografia Alterocca di Terni” la più antica ed importante industria italiana per la produzione di cartoline illustrate e fotografiche.
Mi può spiegare cosa c’entra “mentalità campanilistica di Macerata” ed “esempio di grettezza”?
@ Sisetto
Per meglio capire l’origine e lo sviluppo del castello della Rancia, la cui storia c’è stata tramandata imbevuta di leggende fantastiche com’è nel costume popolare.
Nel 1056, nell’atto di donazione di Rando e sua moglie Berta, compare per la prima volta un castello: essepto ipsu castellu, ipsa ea terra pomis et arboribus suis, mentre al 1255 si può far risalire l’esistenza di un non meglio definito “castellare granaio”. Comunque gran parte dell’impianto attuale si può far risalire al 1352 quando Rodolfo II da Varano incaricò , un mastro fornaciaro comacino, di edificargli: Palatium Aranciae in loco castellaris Butinae versus Chiento, longitudinem 130 pedes, amplitudinem 30 pedes, pro pretio duorum florenorum pro qualibet canna ad mensuram communis montismiloni… Sicché si tratta di diversa destinazione d’uso: la vecchia fattoria benedettina (1141 ca.) dipendente dalla abazia di Fiastra, veniva trasformata. Aranciae e non granciae come da sempre sostenuto dagli storici locali. Dimora signorile quindi fondata con riferimento all’arancio, probabilmente come concetto spettacolare di pomerio (frutteto), una parte dell’hortus conclusus o giardino segreto, molto in voga nel basso medioevo. Palazzo inteso come dimora del signore con tanto di giardino degli aranci: piante d’arancio in vaso, nei mesi estivi venivano esposte all’aperto, mentre d’inverno venivano conservate nell’arancera.
Non c’è dubbio quindi che Palatium Aranciae rappresenti il primo esempio di dimora/ fortezza del Maceratese. Il castello da bosco e da riviera, situato nella pianura tra il fiume Chienti e la strada romana, nell’area bonificata poi da Giulio Cesare da Varano, conteso da Montemilone, Macerata e Tolentino è stato al centro di battaglie e vi ha visto acquartierarsi diversi capitani di ventura: Giovanni Acuto, Lucio Lando, Braccio da Montone, Nicolò Piccinino e altri. Sul finire del Cinquecento passò ai Gesuiti che lo tennero fino alla fine del Settecento, quando venne soppresso l’ordine religioso. Da questi passò in enfiteusi prima al maceratese Caucci che oberato dai debiti lo dovette cedere ai Bandini in enfiteusi.
Il 2-3 maggio del 1815 il castello fu teatro della battaglia tra gli Austriaci e i Napoletani del Murat. Nel 1833 fu acquistato dai Bandini che lo tennero fino al 1973, anno in cui per 25 milioni fu venduto al Comune di Tolentino dalla principessa Sofia Giustiniani Bandini a patto e condizione che il comune lo destinasse ad attività culturali.
(continuo?)