di Fabrizio Cortella
Infine, è il turno del teatro dell’impegno civile e sociale di calcare le scene del Lauro Rossi. Nell’ultima domenica pre-natalizia della “51a Rassegna nazionale d’arte drammatica Angelo Perugini” la protagonista è stata la compagnia TeatroVillaggioIndipendente, nata nel 2010 a Settimo Torinese, con lo spettacolo: “Italia Donati, maestra”, già vincitore di numerosi premi. Liberamente ispirato al romanzo del 2003 di Elena Gianini Belotti, “Prima della Quiete”, la riduzione teatrale adattata da Claudio Vittone porta in scena la storia vera di Italia Donati, giovane e bella maestra nella profonda campagna pistoiese post-unitaria.
Vessata dalle indebite “attenzioni” del sindaco e dalle malelingue del popolino, che le attribuisce una grande varietà di amanti e di aborti, viene infine ritrovata nelle acque di un mulino, morta suicida, unico modo a sua disposizione per convincere tutti della purezza della sua anima. A sipario aperto, il palcoscenico è desolatamente vuoto, senza arredi né fondale. Al centro troneggia una pedana, grande e squadrata, leggermente inclinata verso il proscenio, appoggiata su sabbia e terra. È la sola illuminata, vividamente. Intorno, a fatica la penombra lascia intravedere le figure, le rende evanescenti, ritte e immobili come sono, rigidamente separate le une dalle altre: che fanno? Attendono. Aspettano il loro turno di essere chiamate a parlare, a rendere la loro versione della tragica vicenda. Il gesso della sfortunata maestra (Valentina Cardinali, struggente ed eterea) le evoca una alla volta, tracciandone i nomi sulla lavagna scolastica poco discosta, con chiare lettere corsive dalla calligrafia ingenua, di bambina cresciuta troppo in fretta. I testimoni salgono lentamente sulla pedana: Italiano (Giuseppe Caradonna), il fratello ignorante e distratto, in basso quasi sul bordo; il lubrico sindaco (Bruno Pantano) in alto, bene in vista; le contadine, invidiose e pettegole, al di fuori, sulla nuda terra rossa. Gerarchicamente ordinati, fanno il proprio racconto. Che alle nostre orecchie suona come la deposizione dinanzi al magistrato. Come il mettersi a nudo del paziente in una seduta psicoterapeutica in cui, chiamato a raccontare i fatti, finisce col parlare di sé e dei propri fantasmi. Un monologo termina, l’oratore si ritira nella penombra e un altro si fa avanti, senza incrociarlo, senza rivolgergli parola. Soltanto Italia, impalpabile anima in pena, scivola tra di essi, talvolta suggerendo loro una parola, chiosando un’affermazione talaltra. Una drammaturgia così rigida, scandita da schemi recitativi “modulari” e disincarnati fino alla nuda essenza, rischiava di sprofondare nella narrazione monocorde e inutilmente ripetitiva. Ma sia la scrittura, sia la direzione registica sono state capaci di solidificare la grande tensione emotiva in un nucleo narrativo compatto e serrato. L’atmosfera ha rapidamente avvolto attori e pubblico in un denso pathos collettivo. Alla lettura conclusiva della missiva-testamento di Italia, colma dello struggimento di una giovane anima, ma anche della sua ferma denuncia dei soprusi subiti, il silenzio, partecipe e commosso, è calato sul teatro. La concentrazione degli astanti era palpabile, nessun suono né movimento, un raccoglimento spirituale interrotto solamente dall’applauso finale, liberatorio e catartico, finalmente. La troupe si è dimostrata coesa e armonica con alcune interessanti individualità (oltre a coloro già citati, Mariagrazia Cerra, una delle contadine). L’abile scrittura teatrale di Claudio Vittone, scarna e asciutta, ha saputo evitare le secche di un facile melò d’antan.
La regia di Massimiliano Giacometti ha puntato con discrezione a lasciare ampi margini agli attori piuttosto che a tentare di imbrigliarli. La scelta musicale (ancora di Giacometti) ha spaziato dall’epoca barocca a quella contemporanea, dalla musica sacra a quella poeticamente profana di de Andrè, donando alla pièce un respiro colto e tirandola fuori dalle angustie dell’ambientazione tardo-ottocentesca. Ma tutti questi aspetti, sebbene fondamentali, non basterebbero a spiegare il successo di uno spettacolo ostico e così lontano dalla leggerezza oggi tanto di moda anche a teatro. Con le parole del regista: “credo che questa storia debba muovere qualcosa nelle nostre coscienze e non sia solo emozione, indignazione e pietà per ciò che è accaduto un tempo, ma farci riflettere che lì, dietro l’angolo, tutto ciò può ancora succedere”. È la natura medesima della vicenda che la rende morbosamente interessante ai nostri occhi. È la consapevolezza che non si tratta di “una brutta storia di quando eravamo poveri e ignoranti”, ma di una situazione ancora ben radicata nella società odierna. Oggi che siamo ricchi, civili e istruiti la purezza di cuore di un’Italia Donati sarà certamente assai rara da incontrare, ma statene certi: se la trovassimo, la schiacceremmo né più né meno come fecero un secolo e mezzo fa i meschini villici di Porciano.
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