Filippo Davoli e Guido Garufi presentano “La Luce, a volte”
di Maria Stefania Gelsomini
(Foto di Lucrezia Benfatto)
Poeta claustrofobico o claustrofilico? È la domanda che Guido Garufi si è posto e ha posto alla platea presentando giovedì nella biblioteca Mozzi-Borgetti, l’ultimo libro di poesie di Filippo Davoli “La luce, a volte”. Perché la dimensione domestica e poi quella che, come succede in Pascoli, si allarga all’interno delle mura cittadine, è lo spazio in cui si accende, intermittente, la luce del poeta. L’ autore e critico hanno dialogato nel nome della poesia, ripercorrendo la lunga vicenda poetica di Davoli, partita trent’anni fa con la pubblicazione della prima plaquette, fino a quest’ultimo volumetto uscito per i tipi della Liberilibri.
Una casa editrice maceratese che pubblica un autore maceratese, nulla potrebbe mai apparire più scontato, eppure non è così. Se la Liberilibri ha scelto di includere il lavoro di Davoli nel proprio catalogo non si deve certo alla maceratesità, proprio perché fin dall’inizio la connotazione che la Liberilibri si è data non è mai stata quella di un “editore locale”, nato per pubblicare storie e personaggi del territorio. Se Liberilibri ha deciso di pubblicare “La luce, a volte” è semplicemente perché ha riconosciuto nella scrittura di Davoli il suo stesso gusto, quello che ne contraddistingue tutta la linea editoriale. “La pioggia ha sfugato gli avventori./Allenta preziosa, la pioggia,/per far tornare le pietre a respirare./Limpide polle ammiccano dal pavé,/grondano gli ombrelloni dei bar,/di colpo s’è fatto silenzio su tutta la piazza./E noi che stavamo in finestra scendiamo,/torniamo a prendere in mano la città./Scorrono come immagini le figure più amate/legate a un filo invisibile fatto di giorni/che tutti ci stringe./Saranno nostri i muri delle case/o sequestrati noi?” Garufi, ponendo l’accento sulla profonda differenza tra la poesia francese fatta di picchi, sprazzi e macchie di colore e quella inglese, che nel ritmo di una metrica vicina alla prosa riesce a trovare i suoi accenti musicali, ha riconosciuto in Davoli un poeta più vicino agli inglesi, mentre le impronte, gli ologrammi individuabili sono quelli di Remo Pagnanelli e di Eugenio Montale. E la luce a volte, che appare a intervalli, è una luce rassicurante persino quando si palesa la presenza della morte. Perciò, la risposta alla domanda iniziale non poteva che essere: poeta claustrofilico..
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Un saluto a lui dai tempi della scuola…
Purtroppo le poesie dei bravi ragazzi sono sempre poesie di mezzatacca: Montale era cattivo.
Ciao, Paolo! Che piacere! Ma dove sei finito, che non ti ho più incontrato?